Tali risposte mi si diedero per più settimane. Finalmente una mattina mi si disse: “È morto!”.

Versai una lagrima per lui, e mi consolai pensando ch'egli aveva ignorata la sua condanna!

Il dì seguente, 21 febbraio (1822), il custode viene a prendermi: erano le dieci antimeridiane. Mi conduce nella sale della Commissione, e si ritira. Stavano seduti, e si alzarono, il presidente, l'inquisitore e i due giudici assistenti.

Il presidente, con atto di nobile commiserazione, mi disse che la sentenza era venuta, e che il giudizio era stato terribile, ma già l'Imperatore l'aveva mitigato.

L'inquisitore mi lesse la sentenza: “Condannato a morte”. Poi lesse il rescritto imperiale: “La pena è commutata in quindici anni di carcere duro, da scontarsi nella fortezza di Spielberg”.

Risposi: “Sia fatta là volontà di Dio!”.

E mia intenzione era veramente di ricevere da cristiano questo orrendo colpo, e non mostrare né nutrire risentimento contro chicchessia.

Il presidente lodò la mia tranquillità, e mi consigliò a serbarla sempre, dicendomi che da questa tranquillità potea dipendere l'essere forse, fra due o tre anni, creduto meritevole di maggior grazia. (Invece di due o tre, furono poi molti di più.)

Anche gli altri giudici mi volsero parole di gentilezza e di speranza. Ma uno di loro che nel processo m'era ognora sembrato molto ostile, mi disse alcun che di cortese che pur pareami pungente; e quella cortesia giudicai che fosse smentita dagli sguardi, ne' quali avrei giurato essere un riso di gioia e d'insulto.

Or non giurerei più che fosse così: posso benissimo essermi ingannato. Ma il sangue allora mi si rimescolò, e stentai a non prorompere in furore. Dissimulai, e mentre ancora mi lodavano della mia cristiana pazienza, io già l'aveva in segreto perduta.

“Dimani” disse l'inquisitore “ci rincresce di doverle annunciare la sentenza in pubblico; ma è formalità impreteribile.”

“Sia pure” dissi.

“Da quest'istante le concediamo” soggiunse “la compagnia del suo amico.”

E chiamato il custode, mi consegnarono di nuovo a lui, dicendogli che fossi messo con Maroncelli.

 

CAPO LII

 

Qual dolce istante fu per l'amico e per me il rivederci, dopo un anno e tre mesi di separazione e di tanti dolori! Le gioie dell'amicizia ci fecero quasi dimenticare per alcuni istanti la condanna.

Mi strappai nondimeno tosto dalle sue braccia, per prendere la penna e scrivere a mio padre. Io bramava ardentemente che l'annuncio della mia triste sorte giungesse alla famiglia da me, piuttosto che da altri, affinché lo strazio di quegli amati cuori venisse temperato dal mio linguaggio di pace e di religione. I giudici mi promisero di spedir subito quella lettera.

Dopo ciò Maroncelli mi parlò del suo processo, ed io del mio, ci confidammo parecchie carcerarie peripezie, andammo alla finestra, salutammo tre altri amici ch'erano alle finestre loro: due erano Canova e Rezia, che trovavansi insieme, il primo condannato a sei anni di carcere duro ed il secondo a tre; il terzo era il dottor Cesare Armari, che ne' mesi precedenti era stato mio vicino ne' Piombi. Questi non aveva avuto alcuna condanna, ed uscì poi dichiarato innocente.

Il favellare cogli uni e cogli altri fu piacevole distrazione per tutto il dì e tutta la sera. Ma andati a letto, spento il lume, e fatto silenzio, non mi fu possibile dormire, la testa ardevami, ed il cuore sanguinava, pensando a casa mia. - Reggerebbero i miei vecchi genitori a tanta sventura? Basterebbero gli altri lor figli a consolarli? Tutti erano amati quanto io, e valeano più di me; ma un padre ed una madre trovano essi mai, ne' figli che lor restano, un compenso per quello che pèrdono?

Avessi solo pensato a' congiunti ed a qualche altra diletta persona! La lor ricordanza mi affliggeva e m'inteneriva. Ma pensai anche al creduto riso di gioia e d'insulto di quel giudice, al processo, al perché delle condanne, alle passioni politiche, alla sorte di tanti miei amici... e non seppi più giudicare con indulgenza alcuno dei miei avversarii. Iddio mi metteva in una gran prova! Mio debito sarebbe stato di sostenerla con virtù. Non potei! non volli! La voluttà dell'odio mi piacque più del perdono: passai una notte d'inferno.

Il mattino, non pregai. L'universo mi pareva opera d'una potenza nemica del bene. Altre volte era già stato così calunniatore di Dio; ma non avrei creduto di ridivenirlo, e ridivenirlo in poche ore! Giuliano ne' suoi massimi furori non poteva essere più empio di me. Ruminando pensieri di odio, principalmente quand'uno è percosso da somma sventura, la quale dovrebbe renderlo vieppiù religioso, foss'egli anche stato giusto, diventa iniquo. Si, foss'egli anche stato giusto; perocché non si può odiare senza superbia. E chi sei tu, o misero mortale, per pretendere che niuno tuo simile ti giudichi severamente? per pretendere che niuno ti possa far male di buona fede, credendo d'operare con giustizia? per lagnarti, se Dio permette che tu patisca piuttosto in un modo che in un altro?

Io mi sentiva infelice di non poter pregare; ma ove regna superbia, non rinviensi altro Dio che sé medesimo.

Avrei voluto raccomandare ad un supremo soccorritore i miei desolati parenti, e più in lui non credeva.

 

CAPO LIII

 

Alle 9 antimeridiane, Maroncelli ed io fummo fatti entrare in gondola, e ci condussero in città. Approdammo al palazzo del Doge, e salimmo alle carceri. Ci misero nella stanza ove pochi giorni prima era il signor Caporali; ignoro ove questi fosse stato tradotto. Nove o dieci sbirri sedeano a farci guardia, e noi passeggiando aspettavamo l'istante di esser tratti in piazza L'aspettazione fu lunga. Comparve soltanto a mezzodì l'inquisitore, ad annunciarci che bisognava andare. Il medico si presentò, suggerendoci di bere un bicchierino d'acqua di menta; accettammo, e fummo grati, non tanto di questa, quanto della profonda compassione che il buon vecchio ci dimostrava. Era il dottor Dosmo. S'avanzò quindi il capo-sbirro, e ci pose le manette. Seguimmo lui, accompagnati dagli altri sbirri.

Scendemmo la magnifica scala de' giganti, ci ricordammo del doge Marin Faliero, ivi decapitato, entrammo nel gran portone che dal cortile del palazzo mette sulla piazzetta, e qui giunti voltammo verso la laguna. A mezzo della piazzetta era il palco ove dovemmo salire. Dalla scala de' giganti fino a quel palco stavano due file di soldati tedeschi; passammo in mezzo ad esse.

Montati là sopra, guardammo intorno, e vedemmo in quell'immenso popolo il terrore. Per varie parti in lontananza schieravansi altri armati. Ci fu detto, esservi i cannoni colle micce accese dappertutto.

Ed era quella piazzetta, ove nel settembre 1820, un mese prima del mio arresto, un mendico aveami detto: “Questo è luogo di disgrazia!”.

Sovvènnemi di quel mendico, e pensai: "Chi sa, che in tante migliaia di spettatori non siavi anch'egli, e forse mi ravvisi?".

Il capitano tedesco gridò che ci volgessimo verso il palazzo e guardassimo in alto. Obbedimmo, e vedemmo sulla loggia un curiale con una carta in mano. Era la sentenza. La lesse con voce elevata.

Regnò profondo silenzio sino all'espressione: condannati a morte. Allora s'alzò un generale mormorio di compassione. Successe nuovo silenzio per udire il resto della lettura. Nuovo mormorio s'alzò all'espressione: condannati a carcere duro, Maroncelli per vent'anni, e Pellico per quindici.

Il capitano ci fe' cenno di scendere. Gettammo un'altra volta lo sguardo intorno, e scendemmo. Rientrammo nel cortile, risalimmo lo scalone, tornammo nella stanza donde eravamo stati tratti, ci tolsero le manette, indi fummo ricondotti a San Michele.

 

CAPO LIV

 

Quelli ch'erano stati condannati avanti noi, erano già partiti per Lubiana e per lo Spielberg, accompagnati da un commissario di polizia. Ora aspettavasi il ritorno del medesimo commissario, perché conducesse noi al destino nostro. Questo intervallo durò un mese.

La mia vita era allora di molto favellare ed udir favellare, per distrarmi. Inoltre Maroncelli mi leggeva le sue composizioni letterarie, ed io gli leggeva le mie. Una sera lessi dalla finestra l'Ester d'Engaddi a Canova, Rezia ed Armari; e la sera seguente l'Iginia d'Asti.

Ma la notte io fremeva e piangeva, e dormiva poco o nulla.

Bramava, e paventava ad un tempo, di sapere come la notizia del mio infortunio fosse stata ricevuta da' miei parenti.

Finalmente venne una lettera di mio padre. Qual fu il mio dolore, vedendo che l'ultima da me direttagli non gli era stata spedita subito, come io avea tanto pregato l'inquisitore! L'infelice padre, lusingatosi sempre che sarei uscito senza condanna, presa un giorno la “Gazzetta di Milano”, vi trovò la mia sentenza! Egli stesso mi narrava questo crudele fatto, e mi lasciava immaginare quanto l'anima sua ne rimanesse straziata.

Oh come, insieme all'immensa pietà che sentii di lui, della madre, e di tutta la famiglia, arsi di sdegno, perché la lettera mia non fosse stata sollecitamente spedita! Non vi sarà stata malizia in questo ritardo, ma io la supposi infernale; io credetti di scorgervi un raffinamento di barbarie, un desiderio che il flagello avesse tutta la gravezza possibile anche per gl'innocenti miei congiunti. Avrei voluto poter versare un mare di sangue, per punire questa sognata inumanità.

Or che giudico pacatamente, non la trovo verisimile. Quel ritardo non nacque, senza dubbio, da altro che da noncuranza.

Furibondo qual io era, fremetti udendo che i miei compagni si proponeano di far la Pasqua prima di partire, e sentii ch'io non dovea farla, stante la niuna mia volontà di perdonare. Avessi dato questo scandalo!

 

CAPO LV

 

Il commissario giunse alfine di Germania, e venne a dirci che fra due giorni partiremmo.

“Ho il piacere” soggiunse “di poter dar loro una consolazione. Tornando dallo Spielberg, vidi a Vienna S.M. l'Imperatore, il quale mi disse che i giorni di pena di lor signori vuol valutarli non di 24 ore, ma di 12. Con questa espressione intende significare che la pena è dimezzata.”

Questo dimezzamento non ci venne poi mai annunziato officialmente, ma non v'era alcuna probabilità che il commissario mentisse; tanto più che non ci diede già quella nuova in segreto, ma conscia la Commissione.

Io non seppi neppur rallegrarmene. Nella mia mente erano poco meno orribili sett'anni e mezzo di ferri, che quindici anni. Mi pareva impossibile di vivere sì lungamente.

La mia salute era di nuovo assai misera. Pativa dolori di petto gravi, con tosse, e credea lesi i polmoni. Mangiava poco, e quel poco nol digeriva.

La partenza fu nella notte tra il 25 ed il 26 marzo. Ci fu permesso d'abbracciare il dottor Cesare Armari nostro amico. Uno sbirro c'incatenò trasversalmente la mano destra ed il piede sinistro, affinché ci fosse impossibile fuggire. Scendemmo in gondola, e le guardie remigarono verso Fusina.

Ivi giunti, trovammo allestiti due legni. Montarono Rezia e Canova nell'uno; Maroncelli ed io nell'altro. In uno dei legni era co' due prigioni il commissario, nell'altro un sottocommissario cogli altri due. Compivano il convoglio sei o sette guardie di polizia, armate di schioppo e sciabola, distribuite parte dentro i legni, parte sulla cassetta del vetturino.

Essere costretto da sventura ad abbandonare la patria è sempre doloroso, ma abbandonarla incatenato, condotto in climi orrendi, destinato a languire per anni fra sgherri, è cosa sì straziante che non v'ha termini per accennarla!

Prima di varcare le Alpi, vieppiù mi si facea cara d'ora in ora la mia nazione, stante la pietà che dappertutto ci dimostravano quelli che incontravamo. In ogni città, in ogni villaggio, per ogni sparso casolare, la notizia della nostra condanna essendo già pubblica da qualche settimana, eravamo aspettati. In parecchi luoghi, i commissarii e le guardie stentavano a dissipare la folla che ne circondava. Era mirabile il benevolo sentimento che veniva palesato a nostro riguardo.

In Udine ci accadde una commovente sorpresa. Giunti alla locanda, il commissario fece chiudere la porta del cortile e respingere il popolo. Ci assegnò una stanza, e disse ai camerieri che ci portassero da cena e l'occorrente per dormire. Ecco un istante appresso entrare tre uomini, con materassi sulle spalle. Qual è la nostra meraviglia, accorgendoci che solo uno di loro è al servizio della locanda, e che gli altri sono due nostri conoscenti! Fingemmo d'aiutarli a por giù i materassi, e toccammo loro furtivamente la mano. Le lagrime sgorgavano dal cuore ad essi ed a noi. Oh quanto ci fu penoso di non poterle versare tra le braccia gli uni degli altri!

I commissarii non s'avvidero di quella pietosa scena, ma dubitai che una delle guardie penetrasse il mistero, nell'atto che il buon Dario mi stringeva la mano. Quella guardia era un veneto. Mirò in volto Dario e me, impallidì, sembrò tentennare se dovesse alzar la voce, ma tacque, e pose gli occhi altrove, dissimulando. Se non indovinò che quelli erano amici nostri, pensò almeno che fossero camerieri di nostra conoscenza.

 

CAPO LVI

 

Il mattino partivamo d'Udine, ed albeggiava appena: quell'affettuoso Dario era già nella strada, tutto mantellato; ci salutò ancora, e ci seguì lungo tempo. Vedemmo anche una carrozza venirci dietro per due o tre miglia. In essa qualcheduno facea sventolare un fazzoletto. Alfine retrocesse. Chi sarà stato? Lo supponemmo.

Oh Iddio benedica tutte le anime generose che non s'adontano d'amare gli sventurati! Ah, tanto più le apprezzo, dacché, negli anni della mia calamità, ne conobbi pur di codarde, che mi rinnegarono e credettero vantaggiarsi ripetendo improperii contro di me. Ma quest'ultime furono poche, ed il numero delle prime non fu scarso.

M'ingannava, stimando che quella compassione che trovavamo in Italia dovesse cessare laddove fossimo in terra straniera. Ah il buono è sempre compatriota degl'infelici! Quando fummo in paesi illirici e tedeschi avveniva lo stesso che ne' nostri. Questo gemito era universale: arme Herren! (poveri signori!).

Talvolta, entrando in qualche paese, le nostre carrozze erano obbligate a fermarsi, avanti di decidere ove s'andasse ad alloggiare. Allora la popolazione si serrava intorno a noi, ed udivamo parole di compianto che veramente prorompevano dal cuore. La bontà di quella gente mi commoveva più ancora di quella de' miei connazionali. Oh come io era riconoscente a tutti! Oh quanto è soave la pietà de' nostri simili! Quanto è soave l'amarli!

La consolazione ch'io indi traea, diminuiva persino i miei sdegni contro coloro ch'io nomava miei nemici.

"Chi sa" pensavo io "se vedessi da vicino i loro volti, e se essi vedessero me, e se potessi leggere nelle anime loro, ed essi nella mia, chi sa ch'io non fossi costretto a confessare non esservi alcuna scelleratezza in loro; ed essi, non esservene alcuna in me! Chi sa che non fossimo costretti a compatirci a vicenda e ad amarci!"

Pur troppo sovente gli uomini s'abborrono, perché reciprocamente non si conoscono; e se scambiassero insieme qualche parola, uno darebbe fiducialmente il braccio all'altro.

Ci fermammo un giorno a Lubiana, ove Canova e Rezia furono divisi da noi e condotti nel castello; è facile immaginarsi quanto questa separazione fosse dolorosa per tutti quattro.

La sera del nostro arrivo a Lubiana ed il giorno seguente, venne a farci cortese compagnia un signore che ci dissero, se io bene intesi, essere un segretario municipale. Era molto umano, e parlava affettuosamente e dignitosamente di religione. Dubitai che fosse un prete: i preti in Germania sogliono vestire affatto come secolari. Era di quelle facce sincere che ispirano stima: m'increbbe di non poter fare più lunga conoscenza con lui, e m'incresce d'avere avuto la storditezza di dimenticare il suo nome.

Quanto dolce mi sarebbe anche di sapere il tuo nome, o giovinetta, che in un villaggio della Stiria ci seguisti in mezzo alla turba; e poi, quando la nostra carrozza dovette fermarsi alcuni minuti, ci salutasti con ambe le mani, indi partisti col fazzoletto agli occhi, appoggiata al braccio d'un garzone mesto, che alle chiome biondissime parea tedesco, ma che forse era stato in Italia, ed avea preso amore alla nostra infelice nazione!

Quanto dolce mi sarebbe di sapere il nome di ciascuno di voi, o venerandi padri e madri di famiglia, che in diversi luoghi vi accostaste a noi per dimandarci se avevamo genitori, ed intendendo che sì, impallidivate, esclamando: “Oh, restituiscavi presto Iddio a que' miseri vecchi!”.

 

CAPO LVII

 

Arrivammo al luogo della nostra destinazione il 10 di aprile.

La città di Brünn è capitale della Moravia, ed ivi risiede il governatore delle due provincie di Moravia e Slesia. È situata in una valle ridente, ed ha un certo aspetto di ricchezza. Molte manifatture di panni prosperavano ivi allora, le quali poscia decaddero; la popolazione era di circa 30 mila anime.

Accosto alle sue mura, a ponente, s'alza un monticello, e sovr'esso siede l'infausta rocca di Spielberg, altre volte reggia de' signori di Moravia, oggi il più severo ergastolo della monarchia austriaca. Era cittadella assai forte, ma i Francesi la bombardarono e presero a' tempi della famosa battaglia d'Austerlitz (il villaggio d'Austerlitz è a poca distanza). Non fu più ristaurata da poter servire di fortezza, ma si rifece una parte della cinta, ch'era diroccata. Circa trecento condannati, per lo più ladri ed assassini, sono ivi custoditi, quali a carcere duro, quali a durissimo.

Il carcere duro significa essere obbligati al lavoro, portare la catena ai piedi, dormire su nudi tavolacci, e mangiare il più povero cibo immaginabile. Il durissimo significa essere incatenati più orribilmente, con una cerchia di ferro intorno a' fianchi, e la catena infitta nel muro in guisa che appena si possa camminare rasente il tavolaccio che serve di letto: il cibo è lo stesso, quantunque la legge dica: pane ed acqua.

Noi, prigionieri di Stato, eravamo condannati al carcere duro.

Salendo per l'erta di quel monticello, volgevamo gli occhi indietro per dire addio al mondo, incerti se il baratro che vivi c'ingoiava si sarebbe più schiuso per noi. Io era pacato esteriormente, ma dentro di me ruggiva. Indarno volea ricorrere alla filosofia per acquetarmi; la filosofia non avea ragioni sufficienti per me.

Partito di Venezia in cattiva salute, il viaggio m'avea stancato miseramente. La testa e tutto il corpo mi dolevano: ardea dalla febbre. Il male fisico contribuiva a tenermi iracondo, e  probabilmente l'ira aggravava il male fisico.

Fummo consegnati al soprintendente dello Spielberg, ed i nostri nomi vennero da questo inscritti fra i nomi de' ladroni. Il commissario imperiale ripartendo ci abbracciò, ed era intenerito;

“Raccomando a lor signori particolarmente la docilità:” diss'egli “la minima infrazione alla disciplina può venir punita dal signor soprintendente con pene severe.”

Fatta la consegna, Maroncelli ed io fummo condotti in un corridoio sotterraneo, dove ci s'apersero due tenebrose stanze non contigue. Ciascuno di noi fu chiuso nel suo covile.

 

CAPO LVIII

 

Acerbissima cosa, dopo aver già detto addio a tanti oggetti, quando non si è più che in due amici, egualmente sventurati, ah sì! acerbissima cosa il dividersi! Maroncelli nel lasciarmi vedeami infermo, e compiangeva in me un uomo ch'ei probabilmente non vedrebbe mai più: io compiangea in lui un fiore splendido di salute, rapito forse per sempre alla luce vitale del sole. E quel fiore infatti oh come appassì! Rivide un giorno la luce, ma oh in quale stato!

Allorché mi trovai solo in quell'orrido antro, e intesi serrarsi i catenacci, e distinsi, al barlume che discendeva da alto finestruolo, il nudo pancone datomi per letto, ed una enorme catena al muro, m'assisi fremente su quel letto, e, presa quella catena, ne misurai la lunghezza, pensando fosse destinata per me.

Mezz'ora dappoi, ecco stridere le chiavi; la porta s'apre: il capocarceriere mi portava una brocca d'acqua.

“Questo è per bere;” disse con voce burbera “e domattina porterò la pagnotta.”

“Grazie, buon uomo.”

“Non sono buono” riprese.

“Peggio per voi” gli dissi sdegnato. “E questa catena,” soggiunsi “è forse per me?”

“Sì, signore, se mai ella non fosse quieta, se infuriasse, se dicesse insolenze. Ma se sarà ragionevole, non le porremo altro che una catena a' piedi. Il fabbro la sta apparecchiando.”

Ei passeggiava lentamente su e giù, agitando quel villano mazzo di grosse chiavi, ed io con occhio irato mirava la sua gigantesca, magra, vecchia persona; e, ad onta de' lineamenti non volgari del suo volto, tutto in lui mi sembrava l'espressione odiosissima d'un brutale rigore!

Oh come gli uomini sono ingiusti, giudicando dall'apparenza e secondo le loro superbe prevenzioni! Colui ch'io m'immaginava agitasse allegramente le chiavi per farmi sentire la sua trista podestà, colui ch'io riputava impudente per lunga consuetudine d'incrudelire, volgea pensieri di compassione, e certamente non parlava a quel modo, con accento burbero, se non per nascondere questo sentimento Avrebbe voluto nasconderlo, a fine di non parer debole e per timore ch'io ne fossi indegno; ma nello stesso tempo, supponendo che forse io era più infelice che iniquo, avrebbe desiderato di palesarmelo.

Noiato della sua presenza, e più della sua aria da padrone, stimai opportuno d'umiliarlo, dicendogli imperiosamente, quasi a servitore:

“Datemi da bere.”

Ei mi guardò, e parea significare: "Arrogante! qui bisogna divezzarsi dal comandare".

Ma tacque, chinò la sua lunga schiena, prese in terra la brocca, e me la porse. M'avvidi, pigliandola, ch'ei tremava, e attribuendo quel tremito alla sua vecchiezza, un misto di pietà e di reverenza temperò il mio orgoglio.

“Quanti anni avete?” gli dissi con voce amorevole.

“Settantaquattro, signore: ho già veduto molte sventure e mie ed altrui.”

Questo cenno sulle sventure sue ed altrui fu accompagnato da nuovo tremito nell'atto ch'ei ripigliava la brocca; e dubitai fosse effetto, non della sola età, ma d'un certo nobile perturbamento. Siffatto dubbio cancellò dall'anima mia l'odio che il suo primo aspetto m'aveva impresso.

“Come vi chiamate?” gli dissi.

“La fortuna, signore, si burlò di me, dandomi il nome d'un grand'uomo. Mi chiamo Schiller.”

Indi in poche parole mi narrò qual fosse il suo paese, quale l'origine, quali le guerre vedute e le ferite riportate.

Era svizzero, di famiglia contadina: avea militato contro a' Turchi sotto il general Laudon a' tempi di Maria Teresa e di Giuseppe II, indi in tutte le guerre dell'Austria contro alla Francia, sino alla caduta di Napoleone.

 

CAPO LIX

 

Quando d'un uomo che giudicammo dapprima cattivo, concepiamo migliore opinione, allora, badando al suo viso, alla sua voce, a' suoi modi, ci pare di scoprire evidenti segni d'onestà. È questa scoperta una realtà? Io la sospetto illusione. Questo stesso viso, quella stessa voce, quegli stessi modi ci pareano, poc'anzi, evidenti segni di bricconeria. S'è mutato il nostro giudizio sulle qualità morali, e tosto mutano le conclusioni della nostra scienza fisionomica. Quante facce veneriamo perché sappiamo che appartennero a valentuomini, le quali non ci sembrerebbero punto atte ad ispirare venerazione se fossero appartenute ad altri mortali! E così viceversa. Ho riso una volta d'una signora che vedendo un'immagine di Catilina, e confondendolo con Collatino, sognava di scorgervi il sublime dolore di Collatino per la morte di Lucrezia. Eppure siffatte illusioni sono comuni.

Non già che non vi sieno facce di buoni le quali portano benissimo impresso il carattere di bontà, e non vi sieno facce di ribaldi che portano benissimo impresso quello di ribalderia; ma sostengo che molte havvene di dubbia espressione.

Insomma, entratomi alquanto in grazia il vecchio Schiller, lo guardai più attentamente di prima, e non mi dispiacque più. A dir vero, nel suo favellare, in mezzo a certa rozzezza, eranvi anche tratti d'anima gentile.

“Caporale qual sono,” diceva egli “m'è toccato per luogo di riposo il tristo ufficio di carceriere: e Dio sa, se non mi costa assai più rincrescimento che il rischiare la vita in battaglia!”

Mi pentii di avergli dimandato con alterigia da bere.

“Mio caro Schiller” gli dissi, stringendogli la mano “voi lo negate indarno, io conosco che siete buono, e poiché sono caduto in quest'avversità, ringrazio il Cielo di avermi dato voi per guardiano.”

Egli ascoltò le mie parole, scosse il capo, indi rispose, fregandosi la fronte, come uomo che ha un pensiero molesto:

“Io sono cattivo, o signore; mi fecero prestare un giuramento, a cui non mancherò mai. Sono obbligato a trattare tutti i prigionieri senza riguardo alla loro condizione, senza indulgenza, senza concessione d'abusi, e tanto più i prigionieri di Stato. L'Imperatore sa quello che fa; io debbo obbedirgli.”

“Voi siete un brav'uomo, ed io rispetterò ciò che riputate debito di coscienza. Chi opera per sincera coscienza può errare, ma è puro innanzi a Dio.”

“Povero signore! abbia pazienza, e mi compatisca. Sarò ferreo ne' miei doveri, ma il cuore... il cuore è pieno di rammarico di non poter sollevare gl'infelici. Questa è la cosa ch'io volea dirle.”

Ambi eravamo commossi. Mi supplicò d'essere quieto, di non andare in furore, come fanno spesso i condannati, di non costringerlo a trattarmi duramente.

Prese poscia un accento ruvido, quasi per celarmi una parte della sua pietà, e disse:

“Or bisogna ch'io me ne vada.”

Poi tornò indietro, chiedendomi da quanto tempo io tossissi così miseramente com'io faceva, e scagliò una grossa maledizione contro il medico, perché non veniva in quella sera stessa a visitarmi.

“Ella ha una febbre da cavallo” soggiunse “io me ne intendo. Avrebbe d'uopo almeno d'un pagliericcio, ma finché il medico non l'ha ordinato, non possiamo darglielo.”

Uscì, richiuse la porta, ed io mi sdraiai sulle dure tavole, febbricitante sì, e con forte dolore di petto, ma meno fremente, meno nemico degli uomini, meno lontano da Dio.

 

CAPO LX

 

A sera venne il soprintendente, accompagnato da Schiller, da un altro caporale e da due soldati, per fare una perquisizione.

Tre perquisizioni quotidiane erano prescritte: una a mattina, una a sera, una a mezzanotte. Visitavano ogni angolo della prigione, ogni minuzia; indi gl'inferiori uscivano, ed il soprintendente (che mattina e sera non mancava mai) si fermava a conversare alquanto con me.

La prima volta che vidi quel drappello, uno strano pensiero mi venne. Ignaro ancora di quei molesti usi, e delirante dalla febbre, immaginai che mi movessero contro per trucidarmi, e afferrai la lunga catena che mi stava vicino per rompere la faccia al primo che mi s'appressasse.

“Che fa ella?” disse il soprintendente. “Non veniamo per farle alcun male. Questa è una visita di formalità a tutte le carceri, a fine di assicurarci che nulla siavi d'irregolare.”

Io esitava; ma quando vidi Schiller avanzarsi verso me e tendermi amicamente la mano, il suo aspetto paterno mi ispirò fiducia: lasciai andare la catena, e presi quella mano fra le mie.

“Oh come arde!” diss'egli al soprintendente. “Si potesse almeno dargli un pagliericcio!”

Pronunciò queste parole con espressione di sì vero, affettuoso cordoglio, che ne fui intenerito.

Il soprintendente mi tastò il polso, mi compianse: era uomo di gentili maniere, ma non osava prendersi alcun arbitrio.

“Qui tutto è rigore anche per me” diss'egli. “Se non eseguisco alla lettera ciò ch'è prescritto, rischio d'essere sbalzato dal mio impiego.”

Schiller allungava le labbra, ed avrei scommesso ch'ei pensava tra sé: "S'io fossi soprintendente non porterei la paura fino a quel grado; né il prendersi un arbitrio così giustificato dal bisogno, e così innocuo alla monarchia, potrebbe mai riputarsi gran fallo."

Quando fui solo, il mio cuore, da qualche tempo incapace di profondo sentimento religioso, s'intenerì e pregò. Era una preghiera di benedizioni sul capo di Schiller; ed io soggiungeva a Dio: "Fa ch'io discerna pure negli altri qualche dote che loro m'affezioni; io accetto tutti i tormenti del carcere, ma deh, ch'io ami! deh, liberami dal tormento d'odiare i miei simili!".

A mezzanotte udii molti passi nel corridoio. Le chiavi stridono, la porta s'apre. È il caporale con due guardie, per la visita.

“Dov'è il mio vecchio Schiller?” diss'io con desiderio.

Ei s'era fermato nel corridoio.

“Son qua, son qua” rispose.

E venuto presso al tavolaccio, tornò a tastarmi il polso, chinandosi inquieto a guardarmi, come un padre sul letto del figliuolo infermo.

“Ed or che me ne ricordo, dimani è giovedì!” borbottava egli “purtroppo giovedì!”

“E che volete dire con ciò?”

“Che il medico non suol venire se non le mattina del lunedì, del mercoledì e del venerdì, e che dimani purtroppo non verrà.”

“Non v'inquietate per ciò.”

“Ch'io non m'inquieti, ch'io non m'inquieti! In tutta la città non si parla d'altro che dell'arrivo di lor signori: il medico non può ignorarlo. Perché diavolo non ha fatto lo sforzo straordinario di venire una volta di più?”

“Chi sa che non venga dimani, sebben sia giovedì?”

Il vecchio non disse altro, Ma mi serrò la mano con forza bestiale, e quasi da storpiarmi. Benché mi facesse male, ne ebbi piacere. Simile al piacere che prova un innamorato se avviene che la sua diletta, ballando, gli pesti un piede: griderebbe quasi dal dolore, ma invece le sorride, e s'estima beato.

 

CAPO LXI

 

La mattina del giovedì, dopo una pessima notte, indebolito, rotte le ossa dalle tavole, fui preso da abbondante sudore. Venne la visita. Il soprintendente non v'era: siccome quell'ora gli era incomoda, ei veniva poi alquanto più tardi.

Dissi a Schiller: “Sentite come sono inzuppato di sudore; ma già mi si raffredda sulle carni; avrei bisogno subito di mutar camicia”.

“Non si può!” gridò con voce brutale.

Ma fecemi secretamente cenno cogli occhi e colla mano. Usciti il caporale e le guardie, ei tornò a farmi un cenno nell'atto che chiudeva la porta.

Poco appresso ricomparve, portandomi una delle sue camicie, lunga due volte la mia persona.

“Per lei” diss'egli “è un po' lunga, ma or qui non ne ho altre.”

“Vi ringrazio, amico, ma siccome ho portato allo Spielberg un baule pieno di biancheria, spero che non mi si ricuserà l'uso delle mie camicie: abbiate la gentilezza d'andare dal soprintendente a chiedere una di quelle.”

“Signore, non è permesso di lasciarle nulla della sua biancheria. Ogni sabbato le si darà una camicia della casa, come agli altri condannati.”

“Onesto vecchio,” dissi “voi vedete in che stato sono; è poco verisimile ch'io esca vivo di qui: non potrò mai ricompensarvi di nulla.”

“Vergogna, signore!” sclamò “vergogna! Parlare di ricompensa a chi non può render servigi! a chi appena può imprestare furtivamente ad un infermo di che asciugarsi il corpo grondante di sudore!”

E gettatami sgarbatamente addosso la sua lunga camicia, se n'andò brontolando, e chiuse la porta con uno strepito da arrabbiato.

Circa due ore più tardi mi portò un tozzo di pan nero.

“Questa” disse “è la porzione per due giorni.”

Poi si mise a camminare fremendo.

“Che avete?” gli dissi. “Siete in collera con me? Ho pure accettata la camicia che mi favoriste.”

“Sono in collera col medico, il quale, benché oggi sia giovedì, potrebbe pur degnarsi di venire!”

“Pazienza!” dissi.

Io diceva "pazienza!", ma non trovava modo di giacer così sulle tavole, senza neppure un guanciale: tutte le mie ossa doloravano.

Alle ore undici mi fu portato il pranzo da un condannato accompagnato da Schiller. Componevano il pranzo due pentolini di ferro, l'uno contenente una pessima minestra, l'altro legumi conditi con salsa tale, che il solo odore metteva schifo.

Provai d'ingoiare qualche cucchiaio di minestra: non mi fu possibile.

Schiller mi ripeteva: “Si faccia animo; procuri d'avvezzarsi a questi cibi; altrimenti le accadrà, come è già accaduto ad altri, di non mangiucchiare se non un po' di pane, e di morir quindi di languore”.

Il venerdì mattina venne finalmente il dottor Bayer. Mi trovò febbre, m'ordinò un pagliericcio, ed insisté perch'io fossi tratto di quel sotterraneo e trasportato al piano superiore. Non si poteva, non v'era luogo. Ma fattone relazione al conte Mitrowsky, governatore delle due provincie, Moravia e Slesia, residente in Brünn, questi rispose che, stante la gravezza del mio male, l'intento del medico fosse eseguito.

Nella stanza che mi diedero penetrava alquanto di luce; ed arrampicandomi alle sbarre dell'angusto finestruolo io vedeva la sottoposta valle, un pezzo della città di Brünn, un sobborgo con molti orticelli, il cimitero, il laghetto della Certosa, ed i selvosi colli che ci divideano da' famosi campi d'Austerlitz.

Quella vista m'incantava. Oh quanto sarei stato lieto, se avessi potuto dividerla con Maroncelli!

 

CAPO LXII

 

Ci si facevano intanto i vestiti da prigioniero. Di lì a cinque giorni, mi portarono il mio.

Consisteva in un paio di pantaloni di ruvido panno, a destra color grigio, e a sinistra color cappuccino; un giustacuore di due colori egualmente collocati, ed un giubbettino di simili due colori, ma collocati oppostamente, cioè il cappuccino a destra ed il grigio a sinistra. Le calze erano di grossa lana; la camicia di tela di stoppa piena di pungenti stecchi, - un vero cilicio: al collo una pezzuola di tela pari a quella della camicia. Gli stivaletti erano di cuoio non tinto, allacciati. Il cappello era bianco.

Compivano questa divisa i ferri a' piedi, cioè una catena da una gamba all'altra, i ceppi della quale furono fermati con chiodi che si ribadirono sopra un'incudine. Il fabbro che mi fece questa operazione disse ad una guardia, credendo che io non capissi il tedesco:

“Malato com'egli è, si poteva risparmiargli questo giuoco; non passano due mesi, che l'angelo della morte viene a liberarlo.”

Möchte es sein! (fosse pure!)” gli diss'io, battendogli colla mano sulla spalla.

Il pover'uomo strabalzò e si confuse; poi disse:

“Spero che non sarò profeta, e desidero ch'ella sia liberata da tutt'altro angelo.”

“Piuttosto che vivere così, non vi pare” gli risposi “che sia benvenuto anche quello della morte?”

Fece cenno di sì col capo, e se n'andò compassionandomi.

Io avrei veramente volentieri cessato di vivere, ma non era tentato di suicidio. Confidava che la mia debolezza di polmoni fosse già tanto rovinosa da sbrigarmi presto. Così non piacque a Dio. La fatica del viaggio m'avea fatto assai male: il riposo mi diede qualche giovamento.

Un istante dopoché il fabbro era uscito, intesi sonare il martello sull'incudine nel sotterraneo. Schiller era ancora nella mia stanza.

“Udite que' colpi” gli dissi. “Certo, si mettono i ferri al povero Maroncelli.”

E ciò dicendo, mi si serrò talmente il cuore, che vacillai, e se il buon vecchio non m'avesse sostenuto, io cadeva. Stetti più di mezz'ora in uno stato che parea svenimento, eppur non era. Non potea parlare, i miei polsi battevano appena, un sudor freddo m'inondava da capo a piedi, e ciò non ostante intendeva tutte le parole di Schiller, ed avea vivissima la ricordanza del passato e la cognizione del presente

Il comando del soprintendente e la vigilanza delle guardie avean tenuto fino allora tutte le vicine carceri in silenzio. Tre o quattro volte io aveva inteso intonarsi qualche cantilena italiana, ma tosto era soppressa dalle grida delle sentinelle. Ne avevamo parecchie sul terrapieno sottoposto alle nostre finestre, ed una nel medesimo nostro corridoio, la quale andava continuamente orecchiando alle porte e guardando agli sportelli per proibire i romori.

Un giorno, verso sera (ogni volta che ci penso mi si rinnovano i palpiti che allora mi si destarono), le sentinelle, per felice caso, furono meno attente, ed intesi spiegarsi e proseguirsi, con voce alquanto sommessa ma chiara, una cantilena nella prigione contigua alla mia.

Oh qual gioia, qual commozione m'invase!

M'alzai dal pagliericcio, tesi l'orecchio, e quando tacque proruppi in irresistibile pianto.

“Chi sei, sventurato?” gridai “chi sei? Dimmi il tuo nome. Io sono Silvio Pellico.”

“Oh Silvio!” gridò il vicino “io non ti conosco di persona, ma t'amo da gran tempo. Accòstati alla finestra, e parliamoci a dispetto degli sgherri.”

M'aggrappai alla finestra, egli mi disse il suo nome, e scambiammo qualche parola di tenerezza.

Era il conte Antonio Oroboni, nativo di Fratta presso Rovigo, giovine di ventinove anni.

Ahi, fummo tosto interrotti da minacciose urla delle sentinelle! Quella del corridoio picchiava forte col calcio dello schioppo, ora all'uscio d'Oroboni, ora al mio. Non volevamo, non potevamo obbedire; ma pure le maledizioni di quelle guardie erano tali, che cessammo, avvertendoci di ricominciare quando le sentinelle fossero mutate.

 

CAPO LXIII

 

Speravamo - e così infatti accadde - che parlando più piano ci potremmo sentire, e che talvolta capiterebbero sentinelle pietose, le quali fingerebbero di non accorgersi del nostro cicaleccio. A forza d'esperimenti, imparammo un modo d'emettere la voce tanto dimesso, che bastava alle nostre orecchie, ed o sfuggiva alle altrui, o si prestava ad essere dissimulato. Bensì avveniva a quando a quando che avessimo ascoltatori d'udito più fino, o che ci dimenticassimo d'essere discreti nella voce. Allora tornavano a toccarci urla, e picchiamenti agli usci, e, ciò ch'era peggio, la collera del povero Schiller e del soprintendente.

A poco a poco perfezionammo tutte le cautele, cioè di parlare piuttosto in certi quarti d'ora che in altri, piuttosto quando v'erano le tali guardie che quando v'erano le tali altre, e sempre con voce moderatissima. Sia eccellenza della nostr'arte, sia in altrui un'abitudine di condiscendenza che s'andava formando, finimmo per potere ogni giorno conversare assai, senza che alcun superiore più avesse quasi mai a garrirci.

Ci legammo di tenera amicizia. Mi narrò la sua vita, gli narrai la mia; le angosce e consolazioni dell'uno divenivano angosce e consolazioni dell'altro. Oh di quanto conforto ci eravamo a vicenda! Quante volte, dopo una notte insonne, ciascuno di noi andando il mattino alla finestra, e salutando l'amico, ed udendone le care parole, sentiva in core addolcirsi la mestizia e raddoppiarsi il coraggio! Uno era persuaso d'essere utile all'altro, e questa certezza destava una dolce gara d'amabilità ne' pensieri, e quel contento che ha l'uomo, anche nella miseria, quando può giovare al suo simile.

Ogni colloquio lasciava il bisogno di continuazione, di schiarimenti; era uno stimolo vitale, perenne, all'intelligenza, alla memoria, alla fantasia, al cuore.

A principio, ricordandomi di Giuliano, io diffidava della costanza di questo nuovo amico. Io pensava: "Finora non ci è accaduto di trovarci discordi; da un giorno all'altro posso dispiacergli in alcuna cosa, ed ecco che mi manderà alla malora".

Questo sospetto ben presto cessò. Le nostre opinioni concordavano su tutti i punti essenziali. Se non che ad un'anima nobile, ardente di generosi sensi, indomita dalla sventura, egli univa la più candida e piena fede nel Cristianesimo, mentre questa in me da qualche tempo vacillava, e talora pareami affatto estinta.

Ei combatteva i miei dubbi con giustissime riflessioni e con molto amore: io sentiva ch'egli avea ragione e gliela dava, ma i dubbi tornavano. Ciò avviene a tutti quelli che non hanno il Vangelo nel cuore, a tutti quelli che odiano altrui ed insuperbiscono di sé. La mente vede un istante il vero, ma siccome questo non le piace, lo discrede l'istante appresso, sforzandosi di guardare altrove.

Oroboni era valentissimo a volgere la mia attenzione sui motivi che l'uomo ha, d'essere indulgente verso i nemici. Io non gli parlava di persona abborrita, ch'ei non prendesse destramente a difenderla, e non già solo colle parole, ma anche coll'esempio. Parecchi gli avean nociuto. Ei ne gemeva, ma perdonava a tutti, e se poteva narrarmi qualche lodevole tratto d'alcuno di loro, lo faceva volentieri.

L'irritazione che mi dominava e mi rendea irreligioso dalla mia condanna in poi, durò ancora alcune settimane; indi cessò affatto. La virtù d'Oroboni m'aveva invaghito. Industriandomi di raggiungerla, mi misi almeno sulle sue tracce. Allorché potei di nuovo pregare sinceramente per tutti e non più odiare nessuno, i dubbi sulla fede sgombrarono: Ubi charitas et amor, Deus ibi est.

 

CAPO LXIV

 

Per dir vero, se la pena era severissima ed atta ad irritare, avevamo nello stesso tempo la rara sorte che buoni fossero tutti coloro che vedevamo. Essi non potevano alleggerire la nostra condizione se non con benevole e rispettose maniere; ma queste erano usate da tutti. Se v'era qualche ruvidezza nel vecchio Schiller, quanto non era compensata dalla nobiltà del suo cuore! Persino il miserabile Kunda (quel condannato che ci portava il pranzo, e tre volte al giorno l'acqua) voleva che ci accorgessimo che ci compativa. Ei ci spazzava la stanza due volte la settimana. Una mattina, spazzando, colse il momento che Schiller s'era allontanato due passi dalla porta, e m'offerse un pezzo di pan bianco. Non l'accettai, ma gli strinsi cordialmente la mano. Quella stretta di mano lo commosse. Ei mi disse in cattivo tedesco (era polacco): “Signore, le si dà ora così poco da mangiare, che ella sicuramente patisce la fame”.

Assicurai di no, ma io assicurava l'incredibile.

Il medico, vedendo che nessuno di noi potea mangiare quella qualità di cibi che ci aveano dato ne' primi giorni, ci mise tutti a quello che chiamano quarto di porzione, cioè al vitto dell'ospedale. Erano tre minestrine leggerissime al giorno, un pezzettino d'arrosto d'agnello da ingoiarsi in un boccone, e forse tre once di pan bianco. Siccome la mia salute s'andava facendo migliore, l'appetito cresceva, e quel quarto era veramente troppo poco. Provai di tornare al cibo dei sani, ma non v'era guadagno a fare, giacché disgustava tanto ch'io non poteva mangiarlo. Convenne assolutamente ch'io m'attenessi al quarto. Per più d'un anno conobbi quanto sia il tormento della fame. E questo tormento lo patirono con veemenza anche maggiore alcuni de' miei compagni, che essendo più robusti di me erano avvezzi a nutrirsi più abbondantemente. So d'alcuni di loro che accettarono pane e da Schiller e da altre due guardie addette al nostro servizio, e perfino da quel buon uomo di Kunda.

“Per la città si dice che a lor signori si dà poco da mangiare” mi disse una volta il barbiere, un giovinotto praticante del nostro chirurgo.

“È verissimo” risposi schiettamente.

Il seguente sabato (ei veniva ogni sabato) volle darmi di soppiatto una grossa pagnotta bianca. Schiller finse di non veder l'offerta. Io, se avessi ascoltato lo stomaco, l'avrei accettata, ma stetti saldo a rifiutare, affinché quel povero giovine non fosse tentato di ripetere il dono; il che alla lunga gli sarebbe stato gravoso.

Per la stessa ragione, io ricusava le offerte di Schiller. Più volte mi portò un pezzo di carne lessa, pregandomi che la mangiassi, e protestando che non gli costava niente, che gli era avanzata, che non sapea che farne, che l'avrebbe davvero data ad altri s'io non la prendeva. Mi sarei gettato a divorarla, ma s'io la prendeva, non avrebb'egli avuto tutti i giorni il desiderio di darmi qualche cosa?

Solo due volte, ch'ei mi recò un piatto di ciriege, e una volta alcune pere, la vista di quella frutta mi affascinò irresistibilmente. Fui pentito d'averla presa, appunto perché d'allora in poi non cessava più d'offrirmene.

 

CAPO LXV

 

Ne' primi giorni fu stabilito che ciascuno di noi avesse, due volte la settimana, un'ora di passeggio. In seguito questo sollievo fu dato un giorno sì, un giorno no; e più tardi ogni giorno, tranne le feste.

Ciascuno era condotto a passeggio separatamente, fra due guardie aventi schioppo in ispalla. Io, che mi trovava alloggiato in capo del corridoio, passava, quando usciva, innanzi alle carceri di tutti i condannati di Stato italiani, eccetto Maroncelli, il quale unico languiva dabbasso.

“Buon passeggio!” mi susurravano tutti dallo sportello dei loro usci; ma non mi era permesso di fermarmi a salutare nessuno.

Si discendeva una scala, si traversava un ampio cortile, e s'andava sovra un terrapieno situato a mezzodì, donde vedeasi la città di Brünn e molto tratto di circostante paese.

Nel cortile suddetto erano sempre molti dei condannati comuni, che andavano o venivano dai lavori, o passeggiavano in frotta conversando. Fra essi erano parecchi ladri italiani, che mi salutavano con gran rispetto e diceano tra loro: “Non è un birbone come noi, eppure la sua prigionia è più dura della nostra”.

Infatti essi aveano molta più libertà di me.

Io udiva queste ed altre espressioni, e li risalutava con cordialità. Uno di loro mi disse una volta: “Il suo saluto, signore, mi fa bene. Ella forse vede sulla mia fisionomia qualche cosa che non è scelleratezza. Una passione infelice mi trasse a commettere un delitto; ma, o signore, no, non sono scellerato!”.

E proruppe in lagrime. Gli porsi la mano, ma egli non me la poté stringere. Le mie guardie, non per malignità, ma per le istruzioni che aveano, lo respinsero. Non doveano lasciarmi avvicinare da chicchesifosse. Le parole che quei condannati mi dirigevano, fingeano per lo più di dirsele tra loro, e se i miei due soldati s'accorgeano che fossero a me rivolte, intimavano silenzio.

Passavano anche per quel cortile uomini di varie condizioni estranei al castello, i quali venivano a visitare il soprintendente, o il cappellano, o il sergente, o alcuno de' caporali. “Ecco uno deg'Italiani, ecco uno degl'Italiani!” diceano sottovoce. E si fermavano a guardarmi; e più volte li intesi dire in tedesco, credendo ch'io non li capissi: “Quel povero signore non invecchierà; ha la morte sul volto”.

Io infatti, dopo essere dapprima migliorato di salute, languiva per la scarsezza del nutrimento, e nuove febbri sovente m'assalivano. Stentava a strascinare la mia catena fino al luogo del passeggio, e là mi gettava sull'erba, e vi stava ordinariamente finché fosse finita la mia ora.

Stavano in piedi o sedeano vicino a me le guardie, e ciarlavamo. Una d'esse, per nome Kral, era un boemo, che, sebbene di famiglia contadina e povera, avea ricevuto una certa educazione, e se l'era perfezionata quanto più avea potuto, riflettendo con forte discernimento su le cose del mondo e leggendo tutti i libri che gli capitavano alle mani. Avea cognizione di Klopstock, di Wieland, di Goethe, di Schiller e di molti altri buoni scrittori tedeschi. Ne sapea un'infinità di brani a memoria, e li dicea con intelligenza e con sentimento. L'altra guardia era un polacco, per nome Kubitzky, ignorante, ma rispettoso e cordiale. La loro compagnia mi era assai cara.

 

CAPO LXVI

 

Ad un'estremità di quel terrapieno, erano le stanze del soprintendente; all'altra estremità alloggiava un caporale con moglie ed un figliuolino. Quand'io vedeva alcuno uscire di quelle abitazioni, io m'alzava e m'avvicinava alla persona, o alle persone, che ivi comparivano, ed era colmato di dimostrazioni di cortesia e di pietà.

La moglie del soprintendente era ammalata da lungo tempo, e deperiva lentamente. Si facea talvolta portare sopra un canapé all'aria aperta. È indicibile quanto si commovesse esprimendomi la compassione che provava per tutti noi. Il suo sguardo era dolcissimo e timido, e quantunque timido, s'attaccava di quando in quando con intensa interrogante fiducia allo sguardo di chi le parlava.

Io le dissi una volta, ridendo: “Sapete, signora, che somigliate alquanto a persona che mi fu cara?”.

Arrossì, e rispose con seria ed amabile semplicità: “Non vi dimenticate dunque di me, quando sarò morta; pregate per la povera anima mia, e pei figliuolini che lascio sulla terra”.

Da quel giorno in poi, non poté più uscire dal letto; non la vidi più. Languì ancora alcuni mesi, poi morì.

Ella avea tre figli, belli come amorini, ed uno ancor lattante. La sventurata abbracciavali spesso in mia presenza, e diceva: “Chi sa qual donna diventerà lor madre dopo di me! Chiunque sia dessa, il Signore le dia viscere di madre, anche pe' figli non nati da lei!”. E piangeva.

Mille volte mi son ricordato di quel suo prego e di quelle lagrime.

Quand'ella non era più, io abbracciava talvolta que' fanciulli, e m'inteneriva, e ripeteva quel prego materno. E pensava alla madre mia, ed agli ardenti voti che il suo amantissimo cuore alzava senza dubbio per me, e con singhiozzi io sclamava: “Oh più felice quella madre che, morendo, abbandona figliuoli inadulti, di quella che dopo averli allevati con infinite cure se li vede rapire!”.

Due buone vecchie solevano essere con quei fanciulli: una era la madre del soprintendente, l'altra la zia. Vollero sapere tutta la mia storia, ed io loro la raccontai in compendio.

“Quanto siamo infelici” diceano coll'espressione del più vero dolore “di non potervi giovare in nulla! Ma siate certo che pregheremo per voi, e che se un giorno viene la vostra grazia, sarà una festa per tutta la nostra famiglia.”

La prima di esse, ch'era quella ch'io vedea più sovente, possedeva una dolce, straordinaria eloquenza nel dar consolazioni. Io le ascoltava con filiale gratitudine, e mi si fermavano nel cuore.

Dicea cose ch'io sapea già, e mi colpivano come cose nuove: - che la sventura non degrada l'uomo, s'ei non è dappoco, ma anzi lo sublima; - che, se potessimo entrare ne' giudizi di Dio, vedremmo essere, molte volte, più da compiangersi i vincitori che i vinti, gli esultanti che i mesti, i doviziosi che gli spogliati di tutto; - che l'amicizia particolare mostrata dall'uomo-Dio per gli sventurati è un gran fatto; - che dobbiamo gloriarci della croce, dopo che fu portata da òmeri divini.

Ebbene, quelle due buone vecchie, ch'io vedea tanto volentieri, dovettero in breve, per ragioni di famiglia, partire dallo Spielberg; i figliuolini cessarono anche di venire sul terrapieno Quanto queste perdite m'afflissero!

 

CAPO LXVII

 

L'incomodo della catena a' piedi, togliendomi di dormire, contribuiva a rovinarmi la salute. Schiller voleva ch'io reclamassi, e pretendeva che il medico fosse in dovere di farmela levare.

Per un poco non l'ascoltai, poi cedetti al consiglio, e dissi al medico che per riacquistare il beneficio del sonno io lo pregava di farmi scatenare, almeno per alcuni giorni.

Il medico disse non giungere ancora a tal grado le mie febbri, ch'ei potesse appagarmi; ed essere necessario ch'io m'avvezzassi ai ferri.

La risposta mi sdegnò, ed ebbi rabbia d'aver fatto quell'inutile dimanda.

“Ecco ciò che guadagnai a seguire il vostro insistente consiglio” dissi a Schiller.

Conviene che gli dicessi queste parole assai sgarbatamente: quel ruvido buon uomo se ne offese.

“A lei spiace” gridò “d'essersi esposta ad un rifiuto, e a me spiace ch'ella sia meco superba!”

Poi continuò una lunga predica: “I superbi fanno consistere la loro grandezza in non esporsi a rifiuti, in non accettare offerte, in vergognarci di mille inezie. Alle Eseleien! tutte asinate! vana grandezza! ignoranza della vera dignità! E la vera dignità sta, in gran parte, in vergognare soltanto delle male azioni!”.

Disse, uscì, e fece un fracasso infernale colle chiavi.

Rimasi sbalordito. "Eppure quella rozza schiettezza" dissi "mi piace. Sgorga dal cuore come le sue offerte, come i suoi consigli, come il suo compianto. E non mi predicò egli il vero? A quante debolezze non do io il nome di dignità, mentre non sono altro che superbia?"

All'ora di pranzo, Schiller lasciò che il condannato Kunda portasse dentro i pentolini e l'acqua, e si fermò sulla porta. Lo chiamai.

“Non ho tempo” rispose asciutto asciutto.

Discesi dal tavolaccio, venni a lui e gli dissi: “Se volete che il mangiare mi faccia buon pro, non mi fate quel brutto ceffo”.

“E qual ceffo ho da fare?” dimandò rasserenandosi.

“D'uomo allegro, d'amico” risposi.

“Viva l'allegria!” sclamò. “E se, perché il mangiare le faccia buon pro, vuole anche vedermi ballare, eccola servita.”

E misesi a sgambettare colle sue magre e lunghe pertiche sì piacevolmente che scoppiai dalle risa. Io ridea, ed avea il cuore commosso.

 

CAPO LXVIII

 

Una sera, Oroboni ed io stavamo alla finestra, e ci dolevamo a vicenda d'essere affamati. Alzammo alquanto la voce, e le sentinelle gridarono. Il soprintendente, che per mala ventura passava da quella parte, si credette in dovere di far chiamare Schiller e di rampognarlo fieramente, che non vigilasse meglio a tenerci in silenzio.

Schiller venne con grand'ira a lagnarsene da me, e m'intimò di non parlar più mai dalla finestra. Voleva ch'io glielo promettessi.

“No”, risposi “non ve lo voglio promettere.”

“Oh der Teufel! der Teufel!” gridò “a me s'ha a dire: non voglio! a me che ricevo una maledetta strapazzata per causa di lei!”

“M'incresce, caro Schiller, della strapazzata che avete ricevuta, me n'incresce davvero; ma non voglio promettere ciò che sento che non manterrei.”

“E perché non lo manterrebbe?”

“Perché non potrei; perché la solitudine continua è tormento sì crudele per me, che non resisterò mai al bisogno di mettere qualche voce da' polmoni, d'invitare il mio vicino a rispondermi. E se il vicino tacesse, volgerei la parola alle sbarre della mia finestra, alle colline che mi stanno in faccia, agli uccelli che volano.”

Der Teufel! e non mi vuol promettere?”

“No, no, no!” sclamai.

Gettò a terra il romoroso mazzo delle chiavi, e ripeté: “Der Teufel! der Teufel!”. Indi proruppe abbracciandomi:

“Ebbene, ho io a cessare d'essere uomo per quella canaglia di chiavi? Ella è un signore come va, ed ho gusto che non mi voglia promettere ciò che non manterrebbe. Farei lo stesso anch'io.” Raccolsi le chiavi e gliele diedi.

“Queste chiavi” gli dissi “non sono poi tanto canaglia, poiché non possono, d'un onesto caporale qual siete, fare un malvagio sgherro.”

“E se credessi che potessero far tanto” rispose “le porterei a' miei superiori, e direi: se non mi vogliono dare altro pane che quello del carnefice, andrò a dimandare l'elemosina.”

Trasse di tasca il fazzoletto, s'asciugò gli occhi, poi li tenne alzati, giungendo le mani in atto di preghiera. Io giunsi le mie, e pregai al pari di lui in silenzio. Ei capiva ch'io faceva voti per esso, com'io capiva ch'ei ne faceva per me.

Andando via, mi disse sotto voce: “Quando ella conversa col conte Oroboni, parli sommesso più che può. Farà così due beni: uno di risparmiarmi le grida del signor soprintendente, l'altro di non far forse capire qualche discorso... debbo dirlo?... qualche discorso che, riferito, irritasse sempre più chi può punire”.

L'assicurai che dalle nostre labbra non usciva mai parola che, riferita a chicchessia, potesse offendere.

Non avevamo infatti d'uopo d'avvertimenti, per esser cauti. Due prigionieri che vengono a comunicazione tra loro sanno benissimo crearsi un gergo, col quale dir tutto senza esser capiti da qualsiasi ascoltatore.

 

CAPO LXIX

 

Io tornava un mattino dal passeggio: era il 7 d'agosto. La porta del carcere d'Oroboni stava aperta, e dentro eravi Schiller, il quale non mi aveva inteso venire. Le mie guardie vogliono avanzare il passo per chiudere quella porta. Io le prevengo, mi vi slancio, ed eccomi nelle braccia d'Oroboni.

Schiller fu sbalordito; disse: “Der Teufel! der Teufel!” e alzò il dito per minacciarmi. Ma gli occhi gli s'empirono di lagrime, e gridò singhiozzando: “O mio Dio, fate misericordia a questi poveri giovani ed a me, ed a tutti gl'infelici, voi che foste tanto infelice sulla terra!”.

Le due guardie piangevano pure. La sentinella del corridoio, ivi accorsa, piangeva anch'essa. Oroboni mi diceva: “Silvio, Silvio, quest'è uno dei più cari giorni della mia vita!”. Io non so che gli dicessi: era fuori di me dalla gioia e dalla tenerezza.

Quando Schiller ci scongiurò di separarci, e fu forza obbedirgli, Oroboni proruppe in pianto dirottissimo, e disse:

“Ci rivedremo noi mai più sulla terra?”

E non lo rividi mai più! Alcuni mesi dopo, la sua stanza era vota, ed Oroboni giaceva in quel cimitero ch'io aveva dinanzi alla mia finestra!

Dacché ci eravamo veduti quell'istante, pareva che ci amassimo anche più dolcemente, più fortemente di prima; pareva che ci fossimo a vicenda più necessarii.

Egli era un bel giovane, di nobile aspetto, ma pallido e di misera salute. I soli occhi erano pieni di vita. Il mio affetto per lui veniva aumentato dalla pietà che la sua magrezza ed il suo pallore m'ispiravano. La stessa cosa provava egli per me. Ambi sentivamo quanto fosse verisimile che ad uno di noi toccasse di essere presto superstite all'altro.

Fra  pochi giorni egli ammalò. Io non faceva altro che gemere e pregare per lui. Dopo alcune febbri racquistò un poco di forza, e poté tornare ai colloqui amicali. Oh come l'udire di nuovo il suono della sua voce mi consolava!

“Non ingannarti,” diceami egli “sarà per poco tempo. Abbi la virtù d'apparecchiarti alla mia perdita; ispirami coraggio col tuo coraggio.”

In que' giorni si volle dare il bianco alle pareti delle nostre carceri, e ci trasportarono frattanto ne' sotterranei. Disgraziatamente in quell'intervallo non fummo posti in luoghi vicini. Schiller mi diceva che Oroboni stava bene ma io dubitava che non volesse dirmi il vero, e temeva che la salute già sì debole di questo deteriorasse in que' sotterranei.

Avessi almeno avuto la fortuna d'esser vicino in quell'occasione al mio caro Maroncelli! Udii per altro la voce di questo. Cantando ci salutammo, a dispetto dei garriti delle guardie.

Venne in quel tempo a vederci il protomedico di Brünn, mandato forse in conseguenza delle relazioni che il soprintendente faceva a Vienna sull'estrema debolezza a cui tanta scarsità di cibo ci aveva tutti ridotti, ovvero perché allora regnava nelle carceri uno scorbuto molto epidemico.

Non sapendo io il perché di questa visita, m'immaginai che fosse per nuova malattia d'Oroboni. Il timore di perderlo mi dava un'inquietudine indicibile. Fui allora preso da forte melanconia e da desiderio di morire. Il pensiero del suicidio tornava a presentarmisi. Io lo combatteva; ma era come un viaggiatore spossato, che mentre dice a se stesso: "È mio dovere d'andar sino alla meta" si sente un bisogno prepotente di gettarsi a terra e riposare.

M'era stato detto che, non avea guari, in uno di quei tenebrosi covili un vecchio boemo s'era ucciso spaccandosi la testa alle pareti. Io non potea cacciare dalla fantasia la tentazione d'imitarlo. Non so se il mio delirio non sarebbe giunto a quel segno, ove uno sbocco di sangue dal petto non m'avesse fatto credere vicina la mia morte. Ringraziai Dio di volermi esso uccidere in questo modo, risparmiandomi un atto di disperazione che il mio intelletto condannava.

Ma Dio invece volle conservarmi. Quello sbocco di sangue alleggerì i miei mali. Intanto fui riportato nel carcere superiore, e quella maggior luce e la racquistata vicinanza d'Oroboni mi riaffezionarono alla vita.

 

CAPO LXX

 

Gli confidai la tremenda melanconia ch'io avea provato, diviso da lui; ed egli mi disse aver dovuto egualmente combattere il pensiero del suicidio.

“Profittiamo” diceva egli “del poco tempo che di nuovo c'è dato, per confortarci a vicenda colla religione. Parliamo di Dio; eccitiamoci ad amarlo; ci sovvenga ch'egli è la giustizia, la sapienza, la bontà, la bellezza, ch'egli è tutto ciò che d'ottimo vagheggiamo sempre. Io ti dico davvero che la morte non è lontana da me. Ti sarò grato eternamente, se contribuirai a rendermi in questi ultimi giorni tanto religioso quanto avrei dovuto essere tutta la vita.”

Ed i nostri discorsi non volgeano più sovr'altro che sulla filosofia cristiana, e su paragoni di questa colle meschinità della sensualistica. Ambi esultavamo di scorgere tanta consonanza tra il Cristianesimo e la ragione; ambi, nel confronto delle diverse comunioni evangeliche, vedevamo essere la sola cattolica quella che può veramente resistere alla critica, e la dottrina della comunione cattolica consistere in dogmi purissimi ed in purissima morale, e non in miseri sovrappiù prodotti dall'umana ignoranza.

“E se, per accidente poco sperabile, ritornassimo nella società” diceva Oroboni “saremmo noi così pusillanimi da non confessare il Vangelo? da prenderci soggezione, se alcuno immaginerà che la prigione abbia indebolito i nostri animi, e che per imbecillità siamo divenuti più fermi nella credenza?”

“Oroboni mio” gli dissi “la tua dimanda mi svela la tua risposta, e questa è anche la mia. La somma delle viltà è d'esser schiavo de' giudizi altrui, quando hassi la persuasione che sono falsi. Non credo che tal viltà né tu né io l'avremmo mai.”

In quelle effusioni di cuore commisi una colpa. Io aveva giurato a Giuliano di non confidar mai ad alcuno, palesando il suo vero nome, le relazioni ch'erano state fra noi. Le narrai ad Oroboni, dicendogli: “Nel mondo non mi sfuggirebbe mai dal labbro cosa simile, ma qui siamo nel sepolcro, e se anche tu ne uscissi, so che posso fidarmi di te”.

Quell'onestissim'anima taceva.

“Perché non mi rispondi?” gli dissi.

Alfine prese a biasimarmi seriamente della violazione del secreto. Il suo rimprovero era giusto. Niuna amicizia, per quanto intima ella sia, per quanto fortificata da virtù, non può autorizzare a tal violazione.

Ma poiché questa mia colpa era avvenuta, Oroboni me ne derivò un bene. Egli avea conosciuto Giuliano, e sapea parecchi tratti onorevoli della sua vita. Me li raccontò, e dicea: “Quell'uomo ha operato sì spesso da cristiano, che non può portare il suo furore anti-religioso fino alla tomba. Speriamo, speriamo così! E tu bada, Silvio, a perdonargli di cuore i suoi mali umori, e prega per lui!”.

Le sue parole m'erano sacre.

 

CAPO LXXI

 

Le conversazioni di cui parlo, quali con Oroboni, quali con Schiller o altri, occupavano tuttavia poca parte delle mie lunghe ventiquattr'ore della giornata, e non rade erano le volte che niuna conversazione riusciva possibile col primo.

Che faceva io in tanta solitudine?

Ecco tutta quanta la mia vita in que' giorni. Io m'alzava sempre all'alba, e, salito in capo del tavolaccio, m'aggrappava alle sbarre della finestra, e diceva le orazioni. Oroboni già era alla sua finestra o non tardava di venirvi. Ci salutavamo; e l'uno e l'altro continuava tacitamente i suoi pensieri a Dio. Quanto erano orribili i nostri covili, altrettanto era bello lo spettacolo esterno per noi. Quel cielo, quella campagna, quel lontano muoversi di creature nella valle, quelle voci delle villanelle, quelle risa, que' canti ci esilaravano, ci facevano più caramente sentire la presenza di Colui ch'è sì magnifico nella sua bontà, e del quale avevamo tanto di bisogno.

Veniva la visita mattutina delle guardie. Queste davano un'occhiata alla stanza per vedere se tutto era in ordine, ed osservavano la mia catena, anello per anello, a fine d'assicurarsi che qualche accidente o qualche malizia non l'avesse spezzata o piuttosto (dacché spezzar la catena era impossibile) faceasi questa ispezione per obbedire fedelmente alle prescrizioni di disciplina. S'era giorno che venisse il medico, Schiller dimandava se si voleva parlargli, e prendea nota.

Finito il giro delle nostre carceri, tornava Schiller ed accompagnava Kunda, il quale aveva l'ufficio di pulire ciascuna stanza.

Un breve intervallo, e ci portavano la colezione. Questa era un mezzo pentolino di broda rossiccia, con tre sottilissime fettine di pane; io mangiava quel pane e non beveva la broda.

Dopo ciò mi poneva a studiare. Maroncelli avea portato d'Italia molti libri, e tutti i nostri compagni ne aveano pure portati, chi più chi meno. Tutto insieme formava una buona bibliotechina. Speravamo inoltre di poterla aumentare coll'uso de' nostri denari. Non era ancor venuta alcuna risposta dall'Imperatore sul permesso che dimandavamo di leggere i nostri libri ed acquistarne altri; ma intanto il governatore di Brünn ci concedeva provvisoriamente di tener ciascun di noi due libri presso di sé, da cangiarsi ogni volta che volessimo. Verso le nove veniva il soprintendente, e se il medico era stato chiesto ei l'accompagnava.

Un altro tratto di tempo restavami quindi per lo studio, fino alle undici, ch'era l'ora del pranzo.

Fino al tramonto non avea più visite, e tornava a studiare. Allora Schiller e Kunda venivano per mutarmi l'acqua, ed un istante appresso veniva il soprintendente con alcune guardie per l'ispezione vespertina a tutta la stanza ed ai miei ferri.

In una delle ore della giornata, or avanti or dopo il pranzo, a beneplacito delle guardie, eravi il passeggio.

Terminata la suddetta visita vespertina, Oroboni ed io ci mettevamo a conversare, e quelli solevano essere i colloquii più lunghi. Gli straordinari avvenivano la mattina, od appena pranzato, ma per lo più brevissimi.

Qualche volta le sentinelle erano così pietose che ci diceano:

“Un po' più piano, signori, altrimenti il castigo cadrà su noi”

Altre volte fingeano di non accorgersi che parlassimo, poi, vedendo spuntare il sergente, ci pregavano di tacere finché questi fosse partito; ed appena partito esso, diceano: “Signori patroni, adesso potere, ma piano più che star possibile”.

Talora alcuni di que' soldati si fecero arditi sino a dialogare con noi, soddisfare alle nostre dimande, e darci qualche notizia d'Italia.

A certi discorsi non rispondevamo se non pregandoli di tacere. Era naturale che dubitassimo se fossero tutte espansioni di cuori schietti, ovvero artifizii a fine di scrutare i nostri animi. Nondimeno inclino molto più a credere che quella gente parlasse con sincerità.

 

CAPO LXXII

 

Una sera avevamo sentinelle benignissime, e quindi Oroboni ed io non ci davamo la pena di comprimere la voce. Maroncelli nel suo sotterraneo, arrampicatosi alla finestra, ci udì e distinse la voce mia. Non poté frenarsi; mi salutò cantando. Mi chiedea com'io stava, e m'esprimea colle più tenere parole il suo rincrescimento di non avere ancora ottenuto che fossimo messi insieme. Questa grazia l'aveva io pure dimandata, ma né il soprintendente di Spielberg, né il governatore di Brünn, non avevano l'arbitrio di concederla. La nostra vicendevole brama era stata significata all'Imperatore, e niuna risposta erane fin'allora venuta.

Oltre quella volta che ci salutammo cantando ne' sotterranei, io aveva inteso parecchie volte dal piano superiore le sue cantilene, ma senza capire le parole, ed appena pochi istanti, perché nol lasciavano proseguire.

Ora alzò molto più la voce, non fu così presto interrotto, e capii tutto. Non v'ha termini per dire l'emozione che provai.

Gli risposi, e continuammo il dialogo circa un quarto d'ora. Finalmente si mutarono le sentinelle sul terrapieno, e quelle che vennero non furono compiacenti. Ben ci disponevamo a ripigliare il canto, ma furiose grida s'alzarono a maledirci, e convenne rispettarle.

Io mi rappresentava Maroncelli giacente da sì lungo tempo in quel carcere tanto peggiore del mio; m'immaginava la tristezza che ivi dovea sovente opprimerlo ed il danno che la sua salute ne patirebbe, e profonda angoscia m'opprimeva.

Potei alfine piangere, ma il pianto non mi sollevò. Mi prese un grave dolore di capo con febbre violenta. Non mi reggeva in piedi, mi buttai sul pagliericcio. La convulsione crebbe; il petto doleami con orribile spasimo. Credetti quella notte morire.

Il dì seguente la febbre era cessata, e del petto stava meglio, ma pareami d'aver fuoco nel cervello, e appena potea muovere il capo senza che vi si destassero atroci dolori.

Dissi ad Oroboni il mio stato. Egli pure si sentiva più male del solito.

“Amico” diss'egli “non è lontano il giorno che uno di noi due non potrà più venire alla finestra. Ogni volta che ci salutiamo può essere l'ultima. Teniamoci dunque pronti l'uno e l'altro sì a morire, sì a sopravvivere all'amico.”

La sua voce era intenerita; io non potea rispondergli. Stemmo un istante in silenzio, indi ei riprese:

“Te beato, che sai il tedesco! Potrai almeno confessarti! lo ho domandato un prete che sappia l'italiano: mi dissero, che non v'è. Ma Dio vede il mio desiderio, e dacché mi sono confessato a Venezia, in verità mi pare di non aver più nulla che m'aggravi la coscienza.”

“Io invece, a Venezia, mi confessai” gli dissi “con animo pieno di rancore, e feci peggio che se avessi ricusato i sacramenti. Ma se ora mi si concede un prete, t'assicuro che mi confesserò di cuore e perdonando a tutti.”

“Il cielo ti benedica!” sclamò “tu mi dài una grande consolazione. Facciamo, si, facciamo il possibile entrambi per essere eternamente uniti nella felicità, come lo fummo in questi giorni di sventura!”

Il giorno appresso l'aspettai alla finestra e non venne. Seppi da Schiller ch'egli era ammalato gravemente.

Otto o dieci giorni dopo, egli stava meglio, e tornò a salutarmi. Io dolorava, ma mi sostenea. Parecchi mesi passarono, sì per lui che per me, in queste alternative di meglio e di peggio.

 

CAPO LXXIII

 

Potei reggere sino al giorno 11 di gennaio 1823. La mattina m'alzai con mal di capo non forte, ma con disposizione al deliquio. Mi tremavano le gambe, e stentava a trarre il fiato.

Anche Oroboni, da due o tre giorni, stava male, e non s'alzava.

Mi portano la minestra, ne gusto appena un cucchiaio, poi cado privo di sensi. Qualche tempo dopo, la sentinella del corridoio guardò per accidente dallo sportello, e vedendomi giacente a terra, col pentolino rovesciato accanto a me, mi credette morto, e chiamò Schiller.

Venne anche il soprintendente, fu chiamato subito il medico, mi misero a letto. Rinvenni a stento.

Il medico disse ch'io era in pericolo, e mi fece levare i ferri. Mi ordinò non so qual cordiale, ma lo stomaco non poteva ritener nulla. Il dolor di capo cresceva terribilmente.

Fu fatta immediata relazione al governatore, il quale spedì un corriere a Vienna, per sapere come io dovessi essere trattato. Si rispose che non mi ponessero nell'infermeria, ma che mi servissero nel carcere colla stessa diligenza che se fossi nell'infermeria. Di più autorizzavasi il soprintendente a fornirmi brodi e minestre della sua cucina, finché durava la gravezza del male.

Quest'ultimo provvedimento mi fu a principio inutile: niun cibo, niuna bevanda mi passava. Peggiorai per tutta una settimana, e delirava giorno e notte.

Kral e Kubitzky mi furono dati per infermieri; ambi mi servivano con amore.

Ogni volta ch'io era alquanto in senno, Kral mi ripeteva:

“Abbia fiducia in Dio; Dio solo è buono.”

“Pregate per me” dicevagli io “non che mi risani, ma che accetti le mie sventure e la mia morte in espiazione de' miei peccati.”

Mi suggerì di chiedere i sacramenti.

“Se non li chiesi” risposi “attributelo alla debolezza della mia testa; ma sarà per me un gran conforto il riceverli.”

Kral riferì le mie parole al soprintendente, e fu fatto venire il cappellano delle carceri.

Mi confessai, comunicai, e presi l'olio santo. Fui contento di quel sacerdote. Si chiamava Sturm. Le riflessioni che mi fece sulla giustizia di Dio, sull'ingiustizia degli uomini, sul dovere del perdono, sulla vanità di tutte le cose del mondo, non erano trivialità: aveano l'impronta d'un intelletto elevato e cólto, e d'un sentimento caldo di vero amore di Dio e del prossimo.

 

CAPO LXXIV

 

Lo sforzo d'attenzione che feci per ricevere i sacramenti sembrò esaurire la mia vitalità, ma invece giovommi, gettandomi in un letargo di parecchie ore che mi riposò.

Mi destai alquanto sollevato, e vedendo Schiller e Kral vicini a me, presi le lor mani e li ringraziai delle loro cure.

Schiller mi disse: “L'occhio mio è esercitato a veder malati: scommetterei ch'ella non muore”.

“Non parvi di farmi un cattivo pronostico?” diss'io.

“No,” rispose “le miserie della vita sono grandi, è vero; ma chi le sopporta con nobiltà d'animo e con umiltà, ci guadagna sempre vivendo.”

Poi soggiunse: “S'ella vive, spero che avrà fra qualche giorno una gran consolazione. Ella ha dimandato di vedere il signor Maroncelli?”.

“Tante volte ho ciò dimandato, ed invano; non ardisco più sperarlo.”

“Speri, speri, signore! e ripeta la dimanda.”

La ripetei infatti quel giorno. Il soprintendente disse parimente ch'io dovea sperare, e soggiunse essere verisimile che non solo Maroncelli potesse vedermi, ma che mi fosse dato per infermiere, ed in appresso per indivisibile compagno.

Siccome, quanti eravamo prigionieri di Stato, avevamo più o meno tutti la salute rovinata, il governatore avea chiesto a Vienna che potessimo esser messi tutti a due a due, affinché uno servisse d'aiuto all'altro.

Io aveva anche dimandato la grazia di scrivere un ultimo addio alla mia famiglia.

Verso la fine della seconda settimana la mia malattia ebbe una crisi, ed il pericolo si dileguò.

Cominciava ad alzarmi, quando un mattino s'apre la porta, e vedo entrar festosi il soprintendente, Schiller ed il medico. Il primo corre a me, e mi dice: “Abbiamo il permesso di darle per compagno Maroncelli, e di lasciarle scrivere una lettera ai parenti”.

La gioia mi tolse il respiro, ed il povero soprintendente, che per impeto di buon cuore aveva mancato di prudenza, mi credette perduto.

Quando riacquistai i sensi, e mi sovvenne dell'annuncio udito, pregai che non mi si ritardasse un tanto bene. Il medico consentì, e Maroncelli fu condotto nelle mie braccia.

Oh qual momento fu quello! “Tu vivi?” sclamavamo a vicenda. “Oh amico! oh fratello! che giorno felice c'è ancor toccato di vedere! Dio ne sia benedetto!”

Ma la nostra gioia, ch'era immensa, congiungeasi ad una immensa compassione. Maroncelli doveva esser meno colpito di me, trovandomi cosl deperito com'io era: ei sapea qual grave malattia avessi fatto. Ma io, anche pensando che avesse patito, non me lo immaginava così diverso da quel di prima. Egli era appena riconoscibile. Quelle sembianze, già sì belle, sì floride, erano consumate dal dolore, dalla fame, dall'aria cattiva del tenebroso suo carcere!

Tuttavia il vederci, I'udirci, l'essere finalmente indivisi ci confortava. Oh quante cose avemmo a comunicarci, a ricordare, a ripeterci! Quanta soavità nel compianto! Quanta armonia in tutte le idee! Qual contentezza di trovarci d'accordo in fat to di religione, d'odiare bensì l'uno e l'altro l'ignoranza e la barbarie, ma di non odiare alcun uomo, e di commiserare gl'ignoranti ed i barbari, e pregare per loro!

 

CAPO LXXV

 

Mi fu portato un foglio di carta ed il calamaio, affinch'io scrivessi a' parenti.

Siccome propriamente la permissione erasi data ad un moribondo che intendea di volgere alla famiglia l'ultimo addio, io temeva che la mia lettera, essendo ora d'altro tenore, più non venisse spedita. Mi limitai a pregare colla più grande tenerezza genitori, fratelli e sorelle, che si rassegnassero alla mia sorte, protestando loro d'essere rassegnato.

Quella lettera fu nondimeno spedita, come poi seppi allorché dopo tanti anni rividi il tetto paterno. L'unica fu dessa che in sì lungo tempo della mia captività i cari parenti potessero avere da me. Io da loro non n'ebbi mai alcuna: quelle che mi scrivevano furono sempre tenute a Vienna. Egualmente privati d'ogni relazione colle famiglie erano gli altri compagni di sventura.

Dimandammo infinite volte la grazia d'avere almeno carta e calamaio per istudiare, e quella di far uso de' nostri denari per comprar libri. Non fummo esauditi mai.

Il governatore continuava frattanto a permettere che leggessimo i libri nostri.

Avemmo anche, per bontà di lui, qualche miglioramento di cibo, ma ahi! non fu durevole. Egli avea consentito che invece d'esser provveduti dalla cucina del trattore delle carceri, il fossimo da quella del soprintendente. Qualche fondo di più era da lui stato assegnato a tal uso. La conferma di queste disposizioni non venne; ma intanto che durò il beneficio, io ne provai molto giovamento. Anche Maroncelli racquistò un po' di vigore. Per l'infelice Oroboni era troppo tardi!

Quest'ultimo era stato accompagnato, prima coll'avvocato Solera, indi col sacerdote D. Fortini.

Quando fummo appaiati in tutte le carceri, il divieto di parlare alle finestre ci fu rinnovato, con minaccia, a chi contravvenisse, d'essere riposto in solitudine. Violammo a dir vero qualche volta il divieto per salutarci, ma lunghe conversazioni più non si fecero.

L'indole di Maroncelli e la mia armonizzavano perfettamente. Il coraggio dell'uno sosteneva il coraggio dell'altro. Se un di noi era preso da mestizia o da fremiti d'ira contro i rigori della nostra condizione, l'altro l'esilarava con qualche scherzo o con opportuni raziocinii. Un dolce sorriso temperava quasi sempre i nostri affanni.

Finché avemmo libri, benché omai tanto riletti da saperli a memoria, eran dolce pascolo alla mente, perché occasione di sempre nuovi esami, confronti, giudizi, rettificazioni, ecc. Leggevamo, ovvero meditavamo gran parte della giornata in silenzio, e davamo al cicaleccio il tempo del pranzo, quello del passeggio e tutta la sera.

Maroncelli nel suo sotterraneo avea composti molti versi d'una gran bellezza. Me li andava recitando, e ne componeva altri. Io pure ne componeva e li recitava. E la nostra memoria esercitavasi a ritenere tutto ciò. Mirabile fu la capacità che acquistammo di poetare lunghe produzioni a memoria, limarle e tornarle a limare infinite volte, e ridurle a quel segno medesimo di possibile finitezza che avremmo ottenuto scrivendole. Maroncelli compose così, a poco a poco, e ritenne in mente parecchie migliaia di versi lirici ed epici. Io feci la tragedia di Leoniero da Dertona e varie altre cose.

 

CAPO LXXVI

 

Oroboni, dopo aver molto dolorato nell'inverno e nella primavera, si trovò assai peggio la state. Sputò sangue, e andò in idropisia.

Lascio pensare qual fosse la nostra afflizione, quand'ei si stava estinguendo sì presso di noi, senza che potessimo rompere quella crudele parete che c'impediva di vederlo e di prestargli i nostri amichevoli servigi!

Schiller ci portava le sue nuove. L'infelice giovane patì atrocemente, ma l'animo suo non s'avvilì mai. Ebbe i soccorsi spirituali dal cappellano (il quale, per buona sorte, sapeva il francese).

Morì nel suo dì onomastico, il 13 giugno 1823. Qualche ora prima di spirare, parlò dell'ottogenario suo padre, s'intenerì e pianse. Poi si riprese, dicendo:

“Ma perché piango il più fortunato de' miei cari, poich'egli è alla vigilia di raggiungermi all'eterna pace?”

Le sue ultime parole furono: “Io perdono di cuore ai miei nemici”.

Gli chiuse gli occhi D. Fortini, suo amico dall'infanzia, uomo tutto religione e carità.

Povero Oroboni! qual gelo ci corse per le vene, quando ci fu detto ch'ei non era più! Ed udimmo le voci ed i passi di chi venne a prendere il cadavere! E vedemmo dalla finestra il carro in cui veniva portato al cimitero! Traevano quel carro due condannati comuni; lo seguivano quattro guardie. Accompagnammo cogli occhi il triste convoglio fino al cimitero. Entrò nella cinta. Si fermò in un angolo: là era la fossa.

Pochi istanti dopo, il carro, i condannati e le guardie tornarono indietro. Una di queste era Kubitzky. Mi disse (gentile pensiero, sorprendente in un uomo rozzo): “Ho segnato con precisione il luogo della sepoltura, affinché, se qualche parente od amico potesse un giorno ottenere di prendere quelle ossa e portarle al suo paese, si sappia dove giacciono”.

Quante volte Oroboni m'aveva detto, guardando dalla finestra il cimitero: “Bisogna ch'io m'avvezzi all'idea d'andare a marcire là entro: eppur confesso che quest'idea mi fa ribrezzo. Mi pare che non si debba star così bene sepolto in questi paesi come nella nostra cara penisola”.

Poi ridea e sclamava: “Fanciullaggini! Quando un vestito è logoro e bisogna deporlo, che importa dovunque sia gettato?”.

Altre volte diceva: “Mi vado preparando alla morte, ma mi sarei rassegnato più volentieri ad una condizione: rientrare appena nel tetto paterno, abbracciare le ginocchia di mio padre, intendere una parola di benedizione, e morire!”.

Sospirava e soggiungeva: “Se questo calice non può allontanarsi, o mio Dio, sia fatta la tua volontà!”.

E l'ultima mattina della sua vita disse ancora, baciando u n crocefisso che Kral gli porgea:

“Tu ch'eri divino, avevi pure orrore della morte, e dicevi: Si possibile est. transeat a me calix iste! Perdona se lo dico anch'io. Ma ripeto anche le altre tue parole: Verumtamen non sicut ego volo, sed sicut tu!”

 

CAPO LXXVII

 

Dopo la morte d'Oroboni, ammalai di nuovo. Credeva di raggiungere presto l'estinto amico; e ciò bramava. Se non che, mi sarei io separato senza rincrescimento da Maroncelli?

Più volte, mentr'ei, sedendo sul pagliericcio, leggeva o poetava, o forse fingeva al pari di me di distrarsi con tali studi e meditava sulle nostre sventure, io lo guardava con affanno e pensava: "Quanto più trista non sarà la tua vita quando il soffio della morte m'avrà tocco, quando mi vedrai portar via di questa stanza, quando, mirando il cimitero, dirai: 'Anche Silvio è là!"'. E m'inteneriva su quel povero superstite, e faceva voti che gli dessero un altro compagno, capace d'apprezzarlo come lo apprezzava io, - ovvero che il Signore prolungasse i miei martirii, e mi lasciasse il dolce uffizio di temperare quelli di quest'infelice, dividendoli.

Io non noto quante volte le mie malattie sgombrarono e ricomparvero. L'assistenza che in esse faceami Maroncelli era quella del più tenero fratello. Ei s'accorgea quando il parlare non mi convenisse, ed allora stava in silenzio; ei s'accorgea quando i suoi detti potessero sollevarmi, ed allora trovava sempre soggetti confacentisi alla disposizione del mio animo, talora secondandola, talora mirando grado grado a mutarla. Spiriti più nobili del suo, io non ne avea mai conosciuti; pari al suo, pochi. Un grande amore per la giustizia, una grande tolleranza, una gran fiducia nella virtù umana e negli aiuti della Provvidenza, un sentimento vivissimo del bello in tutte le arti, una fantasia ricca di poesia, tutte le più amabili doti di mente e di cuore si univano per rendermelo caro.

Io non dimenticava Oroboni, ed ogni dì gemea della sua morte, ma gioivami spesso il cuore immaginando che quel diletto, libero di tutti i mali ed in seno alla Divinità, dovesse pure annoverare fra le sue contentezze quella di vedermi con un amico non meno affettuoso di lui.

Una voce pareva assicurarmi nell'anima che Oroboni non fosse più in luogo di espiazione; nondimeno io pregava sempre per lui. Molte volte sognai di vederlo che pregasse per me; e que' sogni io amava di persuadermi che non fossero accidentali, ma bensì vere manifestazioni sue, permesse da Dio per consolarmi. Sarebbe cosa ridicola s'io riferissi la vivezza di tali sogni, e la soavità che realmente in me lasciavano per intere giornate.

Ma i sentimenti religiosi e l'amicizia mia per Maroncelli alleggerivano sempre più le mie afflizioni. L'unica idea che mi spaventasse era la possibilità che questo infelice, di salute già assai rovinata, sebbene meno minacciante della mia, mi precedesse nel sepolcro. Ogni volta ch'egli ammalava io tremava; ogni volta che vedealo star meglio, era una festa per me.

Queste paure di perderlo davano al mio affetto per lui una forza sempre maggiore; ed in lui la paura di perder me operava lo stesso effetto.

Ah! v'è pur molta dolcezza in quelle alternazioni d'affanni e di speranze per una persona che è l'unica che ti rimanga! La nostra sorte era sicuramente una delle più misere che si dieno sulla terra; eppure lo stimarci e l'amarci così pienamente formava in mezzo a' nostri dolori una specie di felicità; e davvero la sentivamo.

 

CAPO LXXVIII

 

Avrei bramato che il cappellano (del quale io era stato così contento al tempo della mia prima malattia) ci fosse stato conceduto per confessore, e che potessimo vederlo a quando a quando, anche senza trovarci gravemente infermi. Invece di dare questo incarico a lui, il governatore ci destinò un agostiniano, per nome P. Battista, intantoché venisse da Vienna o la conferma di questo, o la nomina d'un altro.

Io temea di perderci nel cambio; m'ingannava. Il P. Battista era un angiolo di carità; i suoi modi erano educatissimi ed anzi eleganti; ragionava profondamente de' doveri dell'uomo.

Lo pregammo di visitarci spesso. Veniva ogni mese, e più frequentemente se poteva. Ci portava anche, col permesso del governatore, qualche libro, e ci diceva, a nome del suo abate, che tutta la biblioteca del convento stava a nostra disposizione. Sarebbe stato un gran guadagno questo per noi, se fosse durato. Tuttavia ne profittammo per parecchi mesi.

Dopo la confessione, ei si fermava lungamente a conversare, e da tutti i suoi discorsi appariva un'anima retta, dignitosa, innamorata della grandezza e della santità dell'uomo. Avemmo la fortuna di godere circa un anno de' suoi lumi e della sua affezione, e non si smentì mai. Non mai una sillaba che potesse far sospettare intenzioni di servire, non al suo ministero, ma alla politica. Non mai una mancanza di qualsiasi delicato riguardo.

A principio, per dir vero, io diffidava di lui, io m'aspettava di vederlo volgere la finezza del suo ingegno ad indagini sconvenienti. In un prigioniero di Stato, simile diffidenza è pur troppo naturale; ma oh quanto si resta sollevato allorché svanisce, allorché si scopre nell'interprete di Dio niun altro zelo che quello della causa di Dio e dell'umanità!

Egli aveva un modo a lui particolare ed efficacissimo di dare consolazioni. Io m'accusava, per esempio, di fremiti d'ira pei rigori della nostra carceraria disciplina. Ei moralizzava alquanto sulla virtù di soffrire con serenità e perdonando; poi passava a dipingere con vivissima rappresentazione le miserie di condizione diverse della mia. Avea molto vissuto in città ed in campagna, conosciuto grandi e piccoli, e meditato sulle umane ingiustizie; sapea descrivere bene le passioni ed i costumi delle varie classi sociali. Dappertutto ei mi mostrava forti e deboli, calpestanti e calpestati; dappertutto la necessità o d'odiare i nostri simili, o d'amarli per generosa indulgenza e per compassione. I casi ch'ei raccontava per rammemorarmi l'universalità della sventura, ed i buoni effetti che si possono trarre da questa, nulla aveano di singolare; erano anzi affatto ovvii; ma diceali con parole così giuste, così potenti, che mi faceano fortemente sentire le deduzioni da ricavarne.

Ah sì! ogni volta ch'io aveva udito quegli amorevoli rimproveri e que' nobili consigli, io ardeva d'amore della virtù, io non abborriva più alcuno, io avrei data la vita pel minimo de' miei simili, io benediceva Dio d'avermi fatto uomo.

Ah! infelice chi ignora la sublimità della confessione! infelice chi, per non parer volgare, si crede obbligato di guardarla con ischerno! Non è vero che, ognuno sapendo già che bisogna esser buono, sia inutile di sentirselo a dire; che bastino le proprie riflessioni ed opportune letture; no! la favella viva d'un uomo ha una possanza che né le letture, né le proprie riflessioni non hanno! L'anima n'è più scossa; le impressioni che vi si fanno, sono più profonde. Nel fratello che parla, v'è una vita ed un'opportunità che sovente indarno si cercherebbero ne' libri e ne' nostri proprii pensieri.

 

CAPO LXXIX

 

Nel principio del 1824, il soprintendente, il quale aveva la sua cancelleria ad uno de' capi del nostro corridoio, trasportossi altrove, e le stanze di cancelleria con altre annesse furono ridotte a carceri. Ahi! capimmo che nuovi prigionieri di Stato doveano aspettarsi d'Italia.

Giunsero infatti in breve quelli d'un terzo processo: tutti amici e conoscenti miei! Oh, quando seppi i loro nomi qual fu la mia tristezza! Borsieri era uno de' più antichi miei amici! A Confalonieri io era affezionato da men lungo tempo, ma pur con tutto il cuore! Se avessi potuto, passando al carcere durissimo od a qualunque immaginabile tormento, scontare la loro pena e liberarli, Dio sa se non l'avrei fatto! Non dico solo dar la vita per essi: ah che cos'è il dar la vita? soffrire è ben più!

Avrei avuto allora tanto d'uopo delle consolazioni del P. Battista; non gli permisero più di venire.

Nuovi ordini vennero pel mantenimento della più severa disciplina. Quel terrapieno che ci serviva di passeggio fu dapprima cinto di steccato, sicché nessuno, nemmeno in lontananza con telescopii, potesse più vederci; e così noi perdemmo lo spettacolo bellissimo delle circostanti colline e della sottoposta città. Ciò non bastò. Per andare a quel terrapieno, conveniva attraversare, come dissi, il cortile, ed in questo molti aveano campo di scorgerci. A fine di occultarci a tutti gli sguardi, ci fu tolto quel luogo di passeggio e ce ne venne assegnato uno piccolissimo, situato contiguamente al nostro corridoio, ed a pretta tramontana, come le nostre stanze.

Non posso esprimere quanto questo cambiamento di passeggio ci affliggesse. Non ho notato tutti i conforti che avevamo nel luogo che ci veniva tolto. La vista de' figliuoli del soprintendente, i loro cari amplessi, dove avevamo veduta inferma ne' suoi ultimi giorni la loro madre; qualche chiacchiera col fabbro, che aveva pur ivi il suo alloggio; le liete canzoncine e le armonie d'un caporale che sonava la chitarra; e per ultimo un innocente amore - un amore non mio, né del mio compagno, ma d'una buona caporalina ungherese, venditrice di frutta. Ella erasi invaghita di Maroncelli.

Già prima che fosse posto con me, esso e la donna, vedendosi ivi quasi ogni giorno, aveano fatto un poco d'amicizia. Egli era anima sì onesta, sì dignitosa, sì semplice nelle sue viste, che ignorava affatto d'avere innamorato la pietosa creatura. Ne lo feci accorto io. Esitò di prestarmi fede, e nel dubbio solo che avessi ragione, impose a se stesso di mostrarsi più freddo con essa. La maggior riserva di lui, invece di spegnere l'amore della donna, pareva aumentarlo.

Siccome la finestra della stanza di lei era alta appena un braccio dal suolo del terrapieno, ella balzava dal nostro lato per l'apparente motivo di stendere al sole qualche pannolino o fare alcun'altra faccenduola, e stava lì a guardarci; e se poteva, attaccava discorso.

Le povere nostre guardie, sempre stanche di aver poco o niente dormito la notte, coglievano volentieri l'occasione d'essere in quell'angolo, dove, senz'essere vedute da' superiori, poteano sedere sull'erba e sonnecchiare. Maroncelli era allora in un grande imbarazzo, tanto appariva l'amore di quella sciagurata. Maggiore era l'imbarazzo mio. Nondimeno simili scene, che sarebbero state assai risibili se la donna ci avesse ispirato poco rispetto, erano per noi serie, e potrei dire patetiche. L'infelice ungherese aveva una di quelle fisionomie, le quali annunciano indubitabilmente l'abitudine della virtù ed il bisogno di stima. Non era bella, ma dotata di tale espressione di gentilezza, che i contorni alquanto irregolari del suo volto sembravano abbellirsi ad ogni sorriso, ad ogni moto de' muscoli.

Se fosse mio proposito di scrivere d'amore, mi resterebbero non brevi cose a dire di quella misera e virtuosa donna, - or morta Ma basti l'avere accennato uno de' pochi avvenimenti del nostro carcere.

 

CAPO LXXX

 

I cresciuti rigori rendevano sempre più monotona la nostra vita. Tutto il 1824, tutto il 25, tutto il 26, tutto il 27, in che ii passarono per noi? Ci fu tolto quell'uso de' nostri libri che per interim ci era stato conceduto dal governatore. Il carcere divenneci una vera tomba, nella quale neppure la tranquillità della tomba c'era lasciata. Ogni mese veniva, in giorno indeterminato, a farvi una diligente perquisizione il direttore di polizia, accompagnato d'un luogotenente e di guardie. Ci spogliavano nudi, esaminavano tutte le cuciture de' vestiti, nel dubbio che vi si tenesse celata qualche carta o altro, si scucivano i pagliericci per frugarvi dentro. Benché nulla di clandestino potessero trovarci, questa visita ostile e di sorpresa, ripetuta senza fine, aveva non so che, che m'irritava, e che ogni volta metteami la febbre.

Gli anni precedenti m'erano sembrati sì infelici, ed ora io pensava ad essi con desiderio, come ad un tempo di care dolcezze. Dov'erano le ore ch'io m'ingolfava nello studio della Bibbia, o d'Omero? A forza di leggere Omero nel testo, quella poca cognizione di greco ch'io aveva si era aumentata, ed erami appassionato per quella lingua. Quanto incresceami di non poterne continuare lo studio! Dante, Petrarca, Shakespeare, Byron, Walter Scott, Schiller, Goethe, ecc., quanti amici m'erano involati! Fra siffatti io annoverava pure alcuni libri di cristiana sapienza, come il Bourdaloue, il Pascal, l'Imitazione di Gesù Cristo, la Filotea, ecc., libri che se si leggono con critica ristretta ed illiberale, esultando ad ogni reperibile difetto di gusto, ad ogni pensiero non valido, si gettano là e non si ripigliano; ma che, letti senza malignare e senza scandalezzarsi dei lati deboli, scoprono una filosofia alta e vigorosamente nutritiva pel cuore e per l'intelletto.

Alcuni di siffatti libri di religione ci furono poscia mandati in dono dall'Imperatore, ma con esclusione assoluta di libri d'altra specie servienti a studio letterario.

Questo dono d'opere ascetiche venneci impetrato nel 1825 da un confessore dalmata inviatoci da Vienna, il P. Stefano Paulowich, fatto, due anni appresso, vescovo di Cattaro. A lui fummo pur debitori d'aver finalmente la messa, che prima ci si era sempre negata dicendoci che non poteano condurci in chiesa e tenerci separati a due a due siccome era prescritto.

Tanta separazione non potendo mantenersi, andavamo alla messa divisi in tre gruppi; un gruppo sulla tribuna dell'organo, un altro sotto la tribuna, in guisa da non esser veduto, ed il terzo in un oratorietto guardante in chiesa per mezzo d'una grata.

Maroncelli ed io avevamo allora per compagni, ma con divieto che una coppia parlasse coll'altra, sei condannati, di sentenza anteriore alla nostra. Due di essi erano stati miei vicini nei Piombi di Venezia. Eravamo condotti da guardie al posto assegnato, e ricondotti, dopo la messa, ciascuna coppia nel suo carcere. Veniva a dirci la messa un cappuccino. Questo buon uomo finiva sempre il suo rito con un Oremus implorante la nostra liberazione dai vincoli, e la sua voce si commovea. Quando veniva via dall'altare, dava una pietosa occhiata a ciascuno de' tre gruppi, ed inchinava mestamente il capo pregando.

 

CAPO LXXXI

 

Nel 1825 Schiller fu riputato omai troppo indebolito dagli acciacchi della vecchiaia, e gli diedero la custodia d'altri condannati pei quali sembrasse non richiedersi tanta vigilanza. Oh quanto c'increbbe ch'ei si allontanasse da noi, ed a lui pure increbbe di lasciarci!

Per successore ebb'egli dapprima Kral, uomo non inferiore a lui in bontà. Ma anche a questo venne data in breve un'altra destinazione, e ce ne capitò uno, non cattivo, ma burbero ed estraneo ad ogni dimostrazione d'affetto.

Questi mutamenti m'affliggevano profondamente. Schiller, Kral e Kubitzky, ma in particolar modo i due primi, ci avevano assistiti nelle nostre malattie come un padre ed un fratello avrebbero potuto fare. Incapaci di mancare al loro dovere, sapeano eseguirlo senza durezza di cuore. Se v'era un po' di durezza nelle forme, era quasi sempre involontaria, e riscattavanla pienamente i tratti amorevoli che ci usavano. M'adirai talvolta contr'essi, ma oh come mi perdonavano cordialmente! come anelavano di persuaderci che non erano senza affezione per noi, e come gioivano vedendo che n'eravamo persuasi e li stimavamo uomini dabbene!

Dacché fu lontano da noi, più volte Schiller s'ammalò, e si riebbe. Domandavamo contezza di lui con ansietà filiale. Quand'egli era convalescente, veniva talvolta a passeggiare sotto le nostre finestre. Noi tossivamo per salutarlo, ed egli guardava in su con un sorriso melanconico, e diceva alla sentinella, in guisa che udissimo: “Da sind meine Söhne! (là sono i miei figli!)”.

Povero vecchio! che pena mi mettea il vederti trascinare stentatamente l'egro fianco, e non poterti sostenere col mio braccio!

Talvolta ei sedeva lì sull'erba, e leggea. Erano libri ch'ei m'avea prestati. Ed affinché io li riconoscessi, ei ne diceva il titolo alla sentinella, o ne ripeteva qualche squarcio. Per lo più tai libri erano novelle da calendari, od altri romanzi di poco valore letterario, ma morali.

Dopo varie ricadute d'apoplessia, si fece portare all'ospedale de' militari. Era già in pessimo stato, e colà in breve morì. Possedeva alcune centinaia di fiorini, frutto de' suoi lunghi risparmii: queste erano da lui state date in prestito ad alcuni suoi commilitoni. Allorché si vide presso il suo fine, appellò a sè quegli amici, e disse: “Non ho più congiunti; ciascuno di voi si tenga ciò che ha nelle mani. Vi domando solo di pregare per me”.

Uno di tali amici aveva una figlia di diciotto anni, la quale era figlioccia di Schiller. Poche ore prima di morire, il buon vecchio la mandò a chiamare. Ei non potea più proferire parole distinte; si cavò di dito un anello d'argento, ultima sua ricchezza, e lo mise in dito a lei. Poi la baciò, e pianse baciandola. La fanciulla urlava, e lo inondava di lagrime. Ei gliele asciugava col fazzoletto. Prese le mani di lei e se le pose sugli occhi. - Quegli occhi erano chiusi per sempre.

 

CAPO LXXXII

 

Le consolazioni umane ci andavano mancando una dopo l'altra; gli affanni erano sempre maggiori. Io mi rassegnava al voler di Dio, ma mi rassegnava gemendo; e l'anima mia, invece d'indurirsi al male, sembrava sentirlo sempre più dolorosamente.

Una volta mi fu clandestinamente recato un foglio della Gazzetta d'Augsburgo, nel quale spacciavasi stranissima cosa di me, a proposito della monacazione d'una delle mie sorelle.

Diceva: “La signora Maria Angiola Pellico, figlia ecc. ecc., prese addì ecc. il velo nel monastero della Visitazione in Torino ecc. È dessa sorella dell'autore della Francesca da Rimini, Silvio Pellico, il quale usci recentemente dalla fortezza di Spielberg, graziato da S.M. l'Imperatore; tratto di clemenza degnissimo di sì magnanimo Sovrano, e che rallegrò tutta Italia, stanteché, ecc. ecc.”.

E qui seguivano le mie lodi.

La frottola della grazia non sapeva immaginarmi perché fosse stata inventata. Un puro divertimento del giornalista non parea verisimile; era forse qualche astuzia delle polizie tedesche? Chi lo sa? Ma i nomi di Maria Angiola erano precisamente quelli di mia sorella minore. Doveano, senza dubbio, esser passati dalla gazzetta di Torino ad altre gazzette. Dunque quell'ottima fanciulla s'era veramente fatta monaca? Ah, forse ella prese quello stato perché ha perduto i genitori! Povera fanciulla! non ha voluto ch'io solo patissi le angustie del carcere: anch'ella ha voluto recludersi! Il Signore le dia più che non dà a me, le virtù della pazienza e della abnegazione! Quante volte, nella sua cella, quell'angiolo penserà a me! quanto spesso farà dure penitenze per ottener da Dio che alleggerisca i mali del fratello!

Questi pensieri m'intenerivano, mi straziavano il cuore. Pur troppo le mie sventure potevano aver influito ad abbreviare i giorni del padre o della madre, o d'entrambi! Più ci pensava, e più mi pareva impossibile che senza siffatta perdita la mia Marietta avesse abbandonato il tetto paterno. Questa idea mi opprimeva quasi certezza, ed io caddi quindi nel più angoscioso lutto.

Maroncelli n'era commosso non meno di me. Qualche giorno appresso ei diedesi a comporre un lamento poetico sulla sorella del prigioniero. Riuscì un bellissimo poemetto spirante melanconia e compianto. Quando l'ebbe terminato, me lo recitò. Oh come gli fui grato della sua gentilezza! Fra tanti milioni di versi che fino allora s'erano fatti per monache, probabilmente quelli erano i soli che si componessero in carcere, pel fratello della monaca, da un compagno di ferri. Qual concorso d'idee patetiche e religiose!

Così l'amicizia addolciva i miei dolori. Ah, da quel tempo non volse più giorno ch'io non m'aggirassi lungamente col pensiero in un convento di vergini; che fra quelle vergini io non ne considerassi con più tenera pietà una: ch'io non pregassi ardentemente il Cielo d'abbellirle la solitudine, e di non lasciare che la fantasia le dipingesse troppo orrendamente la mia prigione!

 

CAPO LXXXIII

 

L'essermi venuta clandestinamente quella gazzetta non faccia immaginare al lettore che frequenti fossero le notizie del mondo ch'io riuscissi a procurarmi. No: tutti erano buoni intorno a me, ma tutti legati da somma paura. Se avvenne qualche lieve clandestinità, non fu se non quando il pericolo potea veramente parer nullo. Ed era difficil cosa che potesse parer nullo in mezzo a tante perquisizioni ordinarie e straordinarie.

Non mi fu mai dato d'avere nascostamente notizie dei miei cari lontani, tranne il surriferito cenno relativo a mia sorella.

Il timore ch'io aveva, che i miei genitori non fossero più in vita, venne di lì a qualche tempo piuttosto aumentato che diminuito dal modo con cui una volta il direttore di polizia venne ad annunciarmi che a casa mia stavano bene.

“S.M. l'Imperatore comanda” diss'egli “che io le partecipi buone nuove di que' congiunti ch'ella ha a Torino.”

Trabalzai dal piacere e dalla sorpresa a questa non mai prima avvenuta partecipazione, e chiesi maggiori particolarità.

“Lasciai” gli diss'io “genitori, fratelli e sorelle a Torino. Vivono tutti? Deh, s'ella ha una lettera d'alcun di loro, la supplico di mostrarmela!”

“Non posso mostrar niente. Ella deve contentarsi di ciò. È sempre una prova di benignità dell'Imperatore il farle dire queste consolanti parole. Ciò non s'è ancor fatto a nessuno.”

“Concedo esser prova di benignità dell'Imperatore; ma ella sentirà che m'è impossibile trarre consolazione da parole così indeterminate. Quali sono que' miei congiunti che stanno bene? Non ne ho io perduto alcuno?”

“Signore, mi rincresce di non poterle dire di più di quel che m'è stato imposto.”

E così se n'andò.

L'intenzione era certamente stata di recarmi un sollievo con quella notizia. Ma io mi persuasi che, nello stesso tempo che l'Imperatore aveva voluto cedere alle istanze di qualche mio congiunto, e consentire che mi fosse portato quel cenno, ei non volea che mi si mostrasse alcuna lettera, affinch'io non vedessi quali de' miei cari mi fossero mancati.

Indi a parecchi mesi, un annuncio simile al suddetto mi fu recato. Niuna lettera, niuna spiegazione di più.

Videro ch'io non mi contentava di tanto e che rimaneane vieppiù afflitto, e nulla mai più mi dissero della mia famiglia.

L'immaginarmi che i genitori fossero morti, che il fossero forse anche i fratelli, e Giuseppina altra mia amatissima sorella; che forse Marietta unica superstite s'estinguerebbe presto nell'angoscia della solitudine e negli stenti della penitenza, mi distaccava sempre più dalla vita.

Alcune volte, assalito fortemente dalle solite infermità o da infermità nuove, come coliche orrende con sintomi dolorosissimi e simili a quelli del morbo-colera, io sperai di morire. Si; l'espressione è esatta: sperai.

E nondimeno, oh contraddizioni dell'uomo! dando un'occhiata al languente mio compagno mi si straziava il cuore al pensiero di lasciarlo solo, e desiderava di nuovo la vita!

 

CAPO LXXXIV

 

Tre volte vennero di Vienna personaggi d'alto grado a visitare le nostre carceri, per assicurarsi che non ci fossero abusi di disciplina. La prima fu del barone von Münch, e questi, impietosito della poca luce che avevamo, disse che avrebbe implorato di poter prolungare la nostra giornata facendoci mettere per qualche ora della sera una lanterna alla parte esteriore dello sportello. La sua visita fu nel 1825. Un anno dopo fu eseguito il suo pio intento. E così a quel lume sepolcrale potevamo indi in poi vedere le pareti, e non romperci il capo passeggiando.

La seconda visita fu del barone von Vogel. Egli mi trovò in pessimo stato di salute, ed udendo che, sebbene il medico riputasse a me giovevole il caffè, non s'attentava d'ordinarmelo perché oggetto di lusso, disse una parola di consenso a mio favore; ed il caffè mi venne ordinato.

La terza visita fu di non so qual altro signore della Corte, uomo tra i cinquanta ed i sessanta, che ci dimostrò co' modi e colle parole la più nobile compassione. Non potea far nulla per noi, ma l'espressione soave della sua bontà era un beneficio, e gli fummo grati.

Oh qual brama ha il prigioniero di veder creature della sua specie! La religione cristiana, che è sì ricca d'umanità, non ha dimenticato di annoverare fra le opere di misericordia il visitare i carcerati. L'aspetto degli uomini cui duole della tua sventura, quand'anche non abbiano modo di sollevartene più efficacemente, te l'addolcisce.

La somma solitudine può tornar vantaggiosa all'ammendamento d'alcune anime; ma credo che in generale lo sia assai più se non ispinta all'estremo, se mescolata di qualche contatto colla società. Io almeno son così fatto. Se non vedo i miei simili, concentro il mio amore su troppo picciolo numero di essi, e disamo gli altri; se posso vederne, non dirò molti, ma un numero discreto, amo con tenerezza tutto il genere umano.

Mille volte mi son trovato col cuore sì unicamente amante di pochissimi, e pieno d'odio per gli altri, ch'io me ne spaventava. Allora andava alla finestra sospirando di vedere qualche faccia nuova, e m'estimava felice se la sentinella non passeggiava troppo rasente il muro; se si scostava sì che potessi vederla; se alzava il capo udendomi tossire, se la sua fisionomia era buona. Quando mi parea scorgervi sensi di pietà, un dolce palpito prendeami come se quello sconosciuto soldato fosse un intimo amico. S'ei s'allontanava, io aspettava con innamorata inquietudine ch'ei ritornasse, e s'ei ritornava guardandomi, io ne gioiva come d'una grande carità. Se non passava più in guisa ch'io lo vedessi, io restava mortificato come uomo che ama, e conosce che altri nol cura.

 

CAPO LXXXV

 

Nel carcere contiguo, già d'Oroboni, stavano ora D. Marco Fortini e il signor Antonio Villa. Quest'ultimo, altre volte robusto come un Ercole, patì molto la fame il primo anno, e quando ebbe più cibo si trovò senza forze per digerire. Languì lungamente, e poi, ridotto quasi all'estremità, ottenne che gli dessero un carcere più arioso. L'atmosfera mefitica d'un angusto sepolcro gli era, senza dubbio, nocivissima, siccome lo era a tutti gli altri. Ma il rimedio da lui invocato non fu sufficiente. In quella stanza grande campò qualche mese ancora, poi dopo varii sbocchi di sangue morì.

Fu assistito dal concaptivo D. Fortini e dall'abate Paulowich, venuto in fretta di Vienna quando si seppe ch'era moribondo.

Bench'io non mi fossi vincolato con lui così strettamente come con Oroboni, pur la sua morte mi afflisse molto. Io sapeva ch'egli era amato colla più viva tenerezza da' genitori e da una sposa! Per lui, era più da invidiarsi che da compiangersi; ma que' superstiti!...

Egli era anche stato mio vicino sotto i Piombi; Tremerello m'avea portato parecchi versi di lui, e gli avea portati de' miei. Talvolta regnava in que' suoi versi un profondo sentimento.

Dopo la sua morte mi parve d'essergli più affezionato che in vita, udendo dalle guardie quanto miseramente avesse patito. L'infelice non poteva rassegnarsi a morire, sebbene religiosissimo. Provò al più alto grado l'orrore di quel terribile passo, benedicendo però sempre il Signore, e gridandogli con lagrime:

“Non so conformare la mia volontà alla tua, eppur voglio conformarla; opera tu in me questo miracolo!”

Ei non aveva il coraggio d'Oroboni, ma lo imitò, protestando di perdonare a' nemici.

Alla fine di quell'anno (era il 1826) udimmo una sera nel corridoio il romore mal compresso di parecchi camminanti. I nostri orecchi erano divenuti sapientissimi a discernere mille generi di romori. Una porta viene aperta; conosciamo essere quella ov'era l'avvocato Solera. Se n'apre un'altra: è quella di Fortini. Fra alcune voci dimesse, distinguiamo quella del direttore di polizia. “Che sarà? Una perquisizione ad ora sì tarda? e perché?”

Ma in breve escono di nuovo nel corridoio. Quand'ecco la cara voce del buon Fortini: “Oh povereto mi! la scusi, sala; ho desmentegà un tomo del breviario”.

E lesto lesto ei correva indietro a prendersi quel tomo, poi raggiungeva il drappello. La porta della scala s'aperse, intendemmo i loro passi fino al fondo: capimmo che i due felici aveano ricevuto la grazia; e, sebbene c'increscesse di non seguirli, ne esultammo.

 

CAPO LXXXVI

 

Era la liberazione di que' due compagni senza alcuna conseguenza per noi? Come uscivano essi, i quali erano stati condannati al pari di noi, uno a vent'anni, l'altro a quindici, e su noi e su molt'altri non risplendeva grazia?

Contro i non liberati esistevano dunque prevenzioni più ostili? Ovvero sarebbevi la disposizione di graziarci tutti, ma a brevi intervalli di distanza, due alla volta? forse ogni mese? forse ogni due o tre mesi?

Così per alcun tempo dubbiammo. E più di tre mesi volsero né altra liberazione faceasi. Verso la fine del 1827, pensammo che il dicembre potesse essere determinato per anniversario delle grazie. Ma il dicembre passò e nulla accadde.

Protraemmo l'aspettativa sino alla state del 1828, terminando allora per me i sett'anni e mezzo di pena, equivalenti, secondo il detto dell'Imperatore, ai quindici, ove pure la pena si volesse contare dall'arresto. Ché se non voleasi comprendere il tempo del processo (e questa supposizione era la più verisimile), ma bensì cominciare dalla pubblicazione della condanna, i sett'anni e mezzo non sarebbero finiti che nel 1829.

Tutti i termini calcolabili passarono, e grazia non rifulse. Intanto, già prima dell'uscita di Solera e Fortini, era venuto al mio povero Maroncelli un tumore al ginocchio sinistro. In principio il dolore era mite, e lo costringea soltanto a zoppicare. Poi stentava a trascinare i ferri, e di rado usciva a passeggio. Un mattino d'autunno gli piacque d'uscir meco per respirare un poco d'aria: v'era già neve; ed in un fatale momento ch'io nol sosteneva, inciampò e cadde. La percossa fece immantinente divenire acuto il dolore del ginocchio. Lo portammo sul suo letto; ei non era più in grado di reggersi. Quando il medico lo vide, si decise finalmente a fargli levare i ferri. Il tumore peggiorò di giorno in giorno, e divenne enorme e sempre più doloroso. Tali erano i martirii del povero infermo, che non potea aver requie né in letto né fuor di letto.

Quando gli era necessità muoversi, alzarsi, porsi a giacere, io dovea prendere colla maggior delicatezza possibile la gamba malata, e trasportarla lentissimamente nella guisa che occorreva. Talvolta, per fare il più piccolo passaggio da una posizione all'altra ci volevano quarti  d'ora di spasimo.

Sanguisughe, fontanelle, pietre caustiche, fomenti ora asciutti, or umidi, tutto fu tentato dal medico. Erano accrescimenti di strazio, e niente più. Dopo i bruciamenti colle pietre si formava la suppurazione. Quel tumore era tutto piaghe; ma non mai diminuiva, non mai lo sfogo delle piaghe recava alcun lenimento al dolore.

Maroncelli era mille volte più infelice di me; nondimeno, oh quanto io pativa con lui! Le cure d'infermiere mi erano dolci, perché usate a sì degno amico. Ma vederlo così deperire, fra sì lunghi atroci tormenti, e non potergli recar salute! E presagire che quel ginocchio non sarebbe mai più risanato! E scorgere che l'infermo tenea più verisimile la morte che la guarigione! E doverlo continuamente ammirare pel suo coraggio e per la sue serenità! ah, ciò m'angosciava in modo indicibile!

 

CAPO LXXXVII

 

In quel deplorabile stato, ei poetava ancora, ei cantava, ei discorreva; ei tutto facea per illudermi, per nascondermi una parte de' suoi mali. Non potea più digerire, né dormire; dimagrava spaventosamente; andava frequentemente in deliquio; e tuttavia, in alcuni istanti raccoglieva la sua vitalità e faceva animo a me.

Ciò ch'egli patì per nove lunghi mesi non è descrivibile. Finalmente fu conceduto che si tenesse un consulto. Venne il protomedico, approvò tutto quello che il medico avea tentato, e senza pronunciare la sue opinione sull'infermità, e su ciò che restasse a fare, se n'andò.

Un momento appresso, viene il sottintendente, e dice a Maroncelli: “Il protomedico non s'è avventurato di spiegarsi qui in sua presenza; temeva ch'ella non avesse la forza d'udirsi annunziare una dura necessità. Io l'ho assicurato che a lei non manca il coraggio”.

“Spero” disse Maroncelli “d'averne dato qualche prova, in soffrire senza urli questi strazi. Mi si proporrebbe mai?..”

“Si, signore, l'amputazione. Se non che il protomedico, vedendo un corpo così emunto, èsita a consigliarla. In tanta debolezza, si sentirà ella capace di sostenere l'amputazione? Vuol ella esporsi al pericolo?...”

“Di morire? E non morrei in breve egualmente se non si mette termine a questo male?”

“Dunque faremo subito relazione a Vienna d'ogni cosa, ed appena venuto il permesso di amputarla...”

“Che? ci vuole un permesso?”

“Sì, signore.”

Di lì a otto giorni, l'aspettato consentimento giunse.

Il malato fu portato in una stanza più grande; ei dimandò ch'io lo seguissi.

“Potrei spirare sotto l'operazione;” diss'egli “ch'io mi trovi almeno fra le braccia dell'amico.”

La mia compagnia gli fu conceduta.

L'abate Wrba, nostro confessore (succeduto a Paulowich), venne ad amministrare i sacramenti all'infelice. Adempiuto questo atto di religione, aspettavamo i chirurgi, e non comparivano. Maroncelli si mise ancora a cantare un inno.

I chirurgi vennero alfine: erano due. Uno, quello ordinario della casa, cioè il nostro barbiere, ed egli, quando occorrevano operazioni, aveva il diritto di farle di sua mano e non volea cederne l'onore ad altri. L'altro era un giovane chirurgo, allievo della scuola di Vienna, e già godente fama di molta abilità. Questi, mandato dal governatore per assistere all'operazione e dirigerla, avrebbe voluto farla egli stesso, ma gli convenne contentarsi di vegliare all'esecuzione.

Il malato fu seduto sulla sponda del letto colle gambe giù: io lo tenea fra le mie braccia. Al di sopra del ginocchio, dove la coscia cominciava ad esser sana, fu stretto un legaccio, segno del giro che dovea fare il coltello. Il vecchio chirurgo tagliò tutto intorno, la profondità d'un dito; poi tirò in su la pelle tagliata, e continuò il taglio sui muscoli scorticati. Il sangue fluiva a torrenti dalle arterie, ma queste vennero tosto legate con filo di seta. Per ultimo, si segò l'osso.

Maroncelli non mise un grido. Quando vide che gli portavano via la gamba tagliata, le diede un'occhiata di compassione, poi, voltosi al chirurgo operatore, gli disse:

“Ella m'ha liberato d'un nemico, e non ho modo di rimunerarnela.”

V'era in un bicchiere sopra la finestra una rosa.

“Ti prego di portarmi quella rosa” mi disse.

Gliela portai. Ed ei l'offerse al vecchio chirurgo, dicendogli:

“Non ho altro a presentarle in testimonianza della mia gratitudine.”

Quegli prese la rosa, e pianse.

 

CAPO LXXXVIII

 

I chirurgi aveano creduto che l'infermeria di Spielberg provvedesse tutto l'occorrente, eccetto i ferri ch'essi portarono. Ma fatta l'amputazione, s'accorsero che mancavano diverse cose necessarie: tela incerata, ghiaccio, bende, ecc.

Il misero mutilato dovette aspettare due ore, che tutto questo fosse portato dalla città. Finalmente poté stendersi sul letto; ed il ghiaccio gli fu posto sul tronco.

Il dì seguente, liberarono il tronco dai grumi di sangue formativisi, lo lavarono, tirarono in giù la pelle, e fasciarono.

Per parecchi giorni non si diede al malato se non qualche mezza chicchera di brodo con torlo d'uovo sbattuto. E quando fu passato il pericolo della febbre vulneraria, cominciarono gradatamente a ristorarlo con cibo più nutritivo. L'Imperatore avea ordinato che, finché le forze fossero ristabilite, gli si desse buon cibo, della cucina del soprintendente.

La guarigione si operò in quaranta giorni. Dopo i quali fummo ricondotti nel nostro carcere; questo per altro ci venne ampliato, facendo cioè un'apertura al muro ed unendo la nostra antica tanai a quella già abitata da Oroboni e poi da Villa.

Io trasportai il mio letto al luogo medesimo ov'era stato quello d'Oroboni, ov'egli era morto. Quest'identità di luogo m'era cara; pareami di essermi avvicinato a lui. Sognava spesso di lui, e pareami che il suo spirito veramente mi visitasse e mi rasserenasse con celesti consolazioni.

Lo spettacolo orribile di tanti tormenti sofferti da Maroncelli, e prima del taglio della gamba, e durante quell'operazione, e dappoi, mi fortificò l'animo. Iddio, che m'avea dato sufficiente salute nel tempo della malattia di quello, perché le mie cure gli erano necessarie, me la tolse allorch'egli poté reggersi sulle grucce.

Ebbi parecchi tumori glandulari dolorosissimi. Ne risanai, ed a questi successero affanni di petto, già provati altre volte ma ora più soffocanti che mai, vertigini e dissenterie spasmodiche.

“È venuta la mia volta" diceva tra me. "Sarò io meno paziente del mio compagno?"

M'applicai quindi ad imitare, quant'io sapea, la sua virtù.

Non v'è dubbio che ogni condizione umana ha i suoi doveri. Quelli d'un infermo sono la pazienza, il coraggio e tutti gli sforzi per non essere inamabile a coloro che gli sono vicini.

Maroncelli, sulle sue povere grucce, non avea più l'agilità d'altre volte, e rincresceagli, temendo di servirmi meno bene. Ei temeva inoltre che, per risparmiargli i movimenti e la fatica, io non mi prevalessi de' suoi servigi quanto mi abbisognava.

E questo veramente talora accadeva, ma io procacciava che non se n'accorgesse.

Quantunque egli avesse ripigliato forza, non era però senza incomodi. Ei pativa, come tutti gli amputati, sensazioni dolorose ne' nervi, quasiché la parte tagliata vivesse ancora. Gli doleano il piede, la gamba ed il ginocchio ch'ei più non avea. Aggiugneasi che l'osso era stato mal segato, e sporgeva nelle nuove carni, e facea frequenti piaghe. Soltanto dopo circa un anno il tronco fu abbastanza indurito e più non s'aperse.

 

CAPO LXXXIX

 

Ma nuovi mali assalirono l'infelice, e quasi senza intervallo. Dapprima una artritide, che cominciò per le giunture delle mani e poi gli martirò più mesi tutta la persona; indi lo scorbuto. Questo gli coperse in breve il corpo di macchie livide, e mettea spavento.

Io cercava di consolarmi, pensando tra me: "Poiché convien morir qua dentro, è meglio che sia venuto ad uno dei due lo scorbuto; è male attaccaticcio, e ne condurrà nella tomba, se non insieme, almeno a poca distanza di tempo"

Ci preparavamo entrambi alla morte, ed eravamo tranquilli. Nove anni di prigione e di gravi patimenti ci aveano finalmente addimesticati coll'idea del totale disfacimento di due corpi così rovinati e bisognosi di pace. E le anime fidavano nella bontà di Dio, e credeano di riunirsi entrambe in luogo ove tutte le ire degli uomini cessano, ed ove pregavamo che a noi si riunissero anche, un giorno, placati, coloro che non ci amavano.

Lo scorbuto, negli anni precedenti, aveva fatto molta strage in quelle prigioni. Il governo, quando seppe che Maroncelli era affetto da quel terribile male, paventò nuova epidemia scorbutica e consentì all'inchiesta del medico, il quale diceva non esservi rimedio efficace per Maroncelli se non l'aria aperta, e consigliava di tenerlo il meno possibile entro la stanza.

Io, come contubernale di questo, ed anche infermo di discrasia, godetti lo stesso vantaggio.

In tutte quelle ore che il passeggio non era occupato da altri, cioè da mezz'ora avanti l'alba per un paio d'ore, poi durante il pranzo, se così ci piaceva, indi per tre ore della sera sin dopo il tramonto, stavamo fuori. Ciò pei giorni feriali. Ne' festivi, non essendovi il passeggio consueto degli altri, stavamo fuori da mattina a sera, eccettuato il pranzo.

Un altro infelice, di salute danneggiatissima, e di circa settant'anni, fu aggregato a noi, reputandosi che l'ossigeno potessegli pur giovare. Era il signor Costantino Munari, amabile vecchio, dilettante di studi letterari e filosofici, e la cui società ci fu assai piacevole.

Volendo computare la mia pena non dall'epoca dell'arresto ma da quella della condanna, i sette anni e mezzo finivano nel 1829 ai primi di luglio, secondo la firma imperiale della sentenza, ovvero ai 22 d'agosto, secondo la pubblicazione.

Ma anche questo termine passò, e morì ogni speranza.

Fino allora Maroncelli, Munari ed io facevamo talvolta la supposizione di rivedere ancora il mondo, la nostra Italia, i nostri congiunti; e ciò era materia di ragionamenti pieni di desiderio, di pietà e d'amore.

Passato l'agosto e poi il settembre, e poi tutto quell'anno, ci avvezzammo a non isperare più nulla sopra la terra, tranne l'inalterabile continuazione della reciproca nostra amicizia, e l'assistenza di Dio, per consumare degnamente il resto del nostro lungo sacrifizio.

Ah l'amicizia e la religione sono due beni inestimabili! Abbelliscono anche le ore de' prigionieri, a cui più non risplende verisimiglianza di grazia! Dio è veramente cogli sventurati; - cogli sventurati che amano!

 

CAPO XC

 

Dopo la morte di Villa, all'abate Paulowich, che fu fatto vescovo, segui per nostro confessore l'abate Wrba, moravo, professore di Testamento Nuovo a Brünn, valente allievo dell'Istituto Sublime di Vienna.

Quest'istituto è una congregazione fondata dal celebre Frint, allora parroco di corte. I membri di tal congregazione sono tutti sacerdoti, i quali, già laureati in teologia, proseguono ivi sotto severa disciplina i loro studi, per giungere al possesso del massimo sapere conseguibile. L'intento del fondatore è stato egregio: quello cioè di produrre un perenne disseminamento di vera e forte scienza nel clero cattolico di Germania. E simile intento viene, in generale, adempiuto.

Wrba, stando a Brünn, potea darci molta più parte del suo tempo che Paulowich. Ei divenne per noi ciò ch'era il P. Battista, tranne che non gli era lecito di prestarci alcun libro. Facevamo spesso insieme lunghe conferenze; e la mia religiosità ne traeva grande profitto; o, se questo è dir troppo, a me pareva di trarnelo, e sommo era il conforto che indi sentiva.

Nell'anno 1829 ammalò; poi, dovendo assumere altri impegni, non poté più venire da noi. Ce ne spiacque altamente; ma avemmo la buona sorte che a lui seguisse altro dotto ed egregio uomo, l'abate Ziak, vicecurato.

Di que' parecchi sacerdoti tedeschi che ci furono destinati, non capitarne uno cattivo! non uno che scoprissimo volersi fare stromento della politica (e questo è si facile a scoprirsi!), non uno, anzi, che non avesse i riuniti meriti di molta dottrina, di dichiaratissima fede cattolica e di filosofia profonda! Oh quanto ministri della Chiesa siffatti sono rispettabili!

Que' pochi ch'io conobbi mi fecero concepire un'opinione assai vantaggiosa del clero cattolico tedesco.

Anche l'abate Ziak teneva lunghe conferenze con noi. Egli pure mi serviva d'esempio per sopportare con serenità i miei dolori. Incessanti flussioni ai denti, alla gola, agli orecchi lo tormentavano, ed era nondimeno sempre sorridente.

Intanto la molt'aria aperta fece scomparire a poco a poco le macchie scorbutiche di Maroncelli; e parimenti Munari ed io stavamo meglio.

 

CAPO XCI

 

Spuntò il 1° d'agosto del 1830. Volgeano dieci anni ch'io avea perduta la libertà; ott'anni e mezzo ch'io scontava il carcere duro.

Era giorno di domenica. Andammo, come le altre feste, nel solito recinto. Guardammo ancora dal muricciuolo la sottoposta valle, ed il cimitero ove giaceano Oroboni e Villa; parlammo ancora del riposo che un dì v'avrebbero le nostre ossa. Ci assidemmo ancora sulla solita panca ad aspettare che le povere condannate venissero alla messa, che si diceva prima della nostra. Queste erano condotte nel medesimo oratorietto dove per la messa seguente andavamo noi. Esso era contiguo al passeggio.

È uso in tutta la Germania che durante la messa il popolo canti inni in lingua viva. Siccome l'impero d'Austria è paese misto di tedeschi e di slavi, e nelle prigioni di Spielberg il maggior numero de' condannati comuni appartiene all'uno o all'altro di que' popoli, gl'inni vi si cantano una festa in tedesco e l'altra in islavo. Così ogni festa si fanno due prediche, e s'alternano le due lingue. Dolcissimo piacere era per noi l'udire quei canti e l'organo che l'accompagnava.

Fra le donne ve n'avea, la cui voce andava al cuore. Infelici! Alcune erano giovanissime. Un amore, una gelosia, un mal esempio le avea trascinate al delitto! - Mi suona ancora nell'anima il loro religiosissimo canto del Sanctus: “heilig! heilig! heilig!”. Versai ancora una lagrima udendolo.

Alle ore dieci le donne si ritirarono, e andammo alla messa noi. Vidi ancora quelli de' miei compagni di sventura che udivano la messa sulla tribuna dell'organo, da' quali una sola grata ci separava, tutti pallidi, smunti, traenti con fatica i loro ferri!

Dopo la messa tornammo ne' nostri covili. Un quarto di ora dopo ci portarono il pranzo. Apparecchiavamo la nostra tavola, il che consisteva nel mettere un'assicella sul tavolaccio e prendere i nostri cucchiai di legno, quando il signor Wegrath, sottintendente, entrò nel carcere.

“M'incresce di disturbare il loro pranzo” disse “ma si compiacciano di seguirmi; v'è di là il signor direttore di polizia.”

Siccome questi solea venire per cose moleste, come perquisizioni od inquisizioni, seguimmo assai di mal umore il buon sottintendente fino alla camera d'udienza.

Là trovammo il direttore di polizia ed il soprintendente; ed il primo ci fece un inchino, gentile più del consueto.

Prese una carta in mano, e disse con voci tronche, forse temendo di produrci troppo forte sorpresa se si esprimeva più nettamente:

“Signori... ho il piacere... ho l'onore... di significar loro... che S.M. l'Imperatore ha fatto ancora... una grazia...”

Ed esitava a dirci qual grazia fosse. Noi pensavamo che fosse qualche minoramento di pena, come d'essere esenti dalla noia del lavoro, d'aver qualche libro di più, d'avere alimenti men disgustosi.

“Ma non capiscono?” disse.

“No, signore. Abbia la bontà di spiegarci quale specie di grazia sia questa.”

“È la libertà per loro due, e per un terzo che fra poco abbracceranno.”

Parrebbe che quest'annuncio avesse dovuto farci prorompere in giubilo. Il nostro pensiero corse subito ai parenti, de' quali da tanto tempo non avevamo notizia, ed il dubbio che forse non li avremmo più trovati sulla terra ci accorò tanto, che annullò il piacere suscitabile dall'annuncio della libertà.

“Ammutoliscono?...” disse il direttore di polizia. “Io m'aspettava di vederli esultanti.”

“La prego” risposi “di far nota all'Imperatore la nostra gratitudine; ma, se non abbiamo notizia delle nostre famiglie, non ci è possibile di non paventare che a noi sieno mancate persone carissime. Questa incertezza ci opprime, anche in un istante che dovrebbe esser quello della massima gioia.”

Diede allora a Maroncelli una lettera di suo fratello, che lo consolò. A me disse che nulla c'era della mia famiglia; e ciò mi fece vieppiù temere che qualche disgrazia fosse in essa avvenuta.

“Vadano” proseguì “nella loro stanza; e fra poco manderò loro quel terzo che pure è stato graziato.”

Andammo ed apettavamo con ansietà quel terzo. Avremmo voluto che fossero tutti, eppure non poteva essere che uno. “Fosse il povero vecchio Munari! fosse quello! fosse quell'altro!” Niuno era per cui non facessimo voti.

Finalmente la porta s'apre, e vediamo quel compagno essere il signor Andrea Tonelli da Brescia.

Ci abbracciammo. Non potevamo più pranzare.

Favellammo sino a sera, compiangendo gli amici che restavano.

Al tramonto ritornò il direttore di polizia per trarci di quello sciagurato soggiorno. I nostri cuori gemevano, passando innanzi alle carceri de' tanti amati, e non potendo condurli con noi! Chi sa quanto tempo vi languirebbero ancora? chi sa quanti di essi doveano quivi esser preda lenta della morte?

Fu messo a ciascuno di noi un tabarro da soldato sulle spalle ed un berretto in capo, e così, coi medesimi vestiti da galeotto, ma scatenati, scendemmo il funesto monte, e fummo condotti in città, nelle carceri della polizia.

Era un bellissimo lume di luna. Le strade, le case, la gente che incontravamo, tutto mi pareva sì gradevole e sì strano, dopo tanti anni che non avea più veduto simile spettacolo!

 

CAPO XCII

 

Aspettammo nelle carceri di polizia un commissario imperiale che dovea venire da Vienna per accompagnarci sino ai confini. Intanto, siccome i nostri bauli erano stati venduti, ci provvedemmo di biancheria e vestiti, e deponemmo la divisa carceraria.

Dopo cinque giorni il commissario arrivò, ed il direttore di polizia ci consegnò a lui, rimettendogli nello stesso tempo il denaro che avevamo portato sullo Spielberg e quello che si era ricavato dalla vendita dei bauli e de' libri; danaro che poi ci venne a' confini restituito.

La spesa del nostro viaggio fu fatta dall'Imperatore, e senza risparmio.

Il commissario era il signor von Noe, gentiluomo impiegato nella segreteria del ministro della polizia. Non poteva esserci destinata persona di più compita educazione. Ci trattò sempre con tutti i riguardi.

Ma io partii da Brünn con una difficoltà di respiro penosissima, ed il moto della carrozza tanto crebbe il male, che a sera ansava in guisa spaventosa, e temeasi da un istante all'altro ch'io restassi soffocato. Ebbi inoltre ardente febbre tutta notte, ed il commissario era incerto il mattino seguente s'io potessi continuare il viaggio sino a Vienna. Dissi di sì, partimmo: la violenza dell'affanno era estrema; non potea né mangiare, né bere, né parlare.

Giunsi a Vienna semivivo. Ci diedero un buon alloggio nella direzione generale di polizia. Mi posero a letto; si chiamò un medico; questi mi ordinò una cavata di sangue, e ne sentii giovamento. Perfetta dieta e molta digitale fu per otto giorni la mia cura, e risanai. Il medico era il signor Singer; m'usò attenzioni veramente amichevoli.

Io aveva la più grande ansietà di partire, tanto più ch'era a noi penetrata la notizia delle tre giornate di Parigi.

Nello stesso giorno che scoppiava la rivoluzione, l'Imperatore avea firmato il decreto della nostra libertà! Certo non lo avrebbe ora rivocato. Ma era pur cosa non inverisimile, che i tempi tornando ad essere critici per tutta Europa si temessero movimenti popolari anche in Italia, e non si volesse dall'Austria, in quel momento, lasciarci ripatriare. Eravamo ben persuasi di non ritornare sullo Spielberg; ma paventavamo che alcuno suggerisse all'Imperatore di deportarci in qualche città dell'impero lungi dalla penisola.

Mi mostrai anche più risanato che non era, e pregai che si sollecitasse la partenza. Intanto era mio desiderio ardentissimo di presentarmi a S.E. il signor conte di Pralormo, Inviato della Corte di Torino alla Corte austriaca, alla bontà del quale io sapeva di quanto andassi debitore. Egli erasi adoperato colla più generosa e costante premura ad ottenere la mia liberazione. Ma il divieto ch'io non vedessi chi che si fosse non ammise eccezione.

Appena fui convalescente, ci si fece la gentilezza di mandarci per qualche giorno la carrozza perché girassimo un poco per Vienna. Il commissario avea l'obbligo d'accompagnarci e di non lasciarci parlare con nessuno. Vedemmo la bella chiesa di Santo Stefano, i deliziosi passeggi della città, la vicina villa Liechtenstein, e per ultimo la villa imperiale di Schonbrünn.

Mentre eravamo ne' magnifici viali di Schonbrünn passò l'Imperatore, ed il commissario ci fece ritirare, perché la vista delle nostre sparute persone non l'attristasse.

 

CAPO XCIII

 

Partimmo finalmente da Vienna, e potei reggere fino a Bruck. Ivi l'asma tornava ad essere violenta. Chiamammo il medico: era un certo signor Jüdmann, uomo di molto garbo. Mi fece cavar sangue, star a letto, e continuare la digitale. Dopo due giorni feci istanza perché il viaggio fosse proseguito.

Traversammo l'Austria e la Stiria, ed entrammo in Carintia senza novità; ma, giunti ad un villaggio per nome Feldkirchen poco distante da Klagenfurt, ecco giungere un contr'ordine. Dovevamo ivi fermarci sino a nuovo avviso.

Lascio immaginare quanto spiacevole ci fosse quest'evento. Io inoltre aveva il rammarico di esser quello che portava tanto danno a' miei due compagni: s'essi non poteano ripatriare, la mia fatal malattia n'era cagione.

Stemmo cinque giorni a Feldkirchen, ed ivi pure il commissario fece il possibile per ricrearci. V'era un teatrino di commedianti, e vi ci condusse. Ci diede un giorno il divertimento d'una caccia. Il nostro oste e parecchi giovani del paese, col proprietario d'una bella foresta, erano i cacciatori; e noi collocati in posizione opportuna godevamo lo spettacolo.

Finalmente venne un corriere da Vienna, con ordine al commissario che ci conducesse pure al nostro destino. Esultai co' miei compagni di questa felice notizia, ma nello stesso tempo tremava che s'avvicinasse per me il giorno d'una scoperta fatale: ch'io non avessi più né padre, né madre, né chi sa quali altri de' miei cari!

E la mia mestizia cresceva a misura che c'inoltravamo verso Italia.

Da quella parte l'entrata in Italia non è dilettosa all'occhio ed anzi si scende da bellissime montagne del paese tedesco a pianura itala per lungo tratto sterile ed inamena; cosicché i viaggiatori che non conoscono ancora la nostra penisola, ed ivi passano, ridono della magnifica idea che se n'erano fatta, e sospettano d'essere stati burlati da coloro onde l'intesero tanto vantare.

La bruttezza di quel suolo contribuiva a rendermi più tristo. Il rivedere il nostro cielo, l'incontrare facce umane di forma non settentrionale, l'udire da ogni labbro voci del nostro idioma, m'inteneriva; ma era un'emozione che m'invitava più al pianto che alla gioia. Quante volte in carrozza mi copriva colle mani il viso, fingendo di dormire, e piangeva! Quante volte la notte non chiudeva occhio, e ardea di febbre, or dando con tutta l'anima le più calde benedizioni alla mia dolce Italia, e ringraziando il Cielo d'essere a lei renduto; or tormentandomi di non aver notizie di casa, e fantasticando sciagure; or pensando che fra poco sarebbe stato forza separarmi, e forse per sempre, da un amico che tanto avea meco patito, e tante prove di affetto fraterno aveami dato!

Ah! sì lunghi anni di sepoltura non avevano spenta l'energia del mio sentire! ma questa energia era sì poca per la gioia, e tanta pel dolore!

Come avrei voluto rivedere Udine e quella locanda ove quei generosi aveano finto di essere camerieri, e ci aveano stretto furtivamente la mano!

Lasciammo quella città a nostra sinistra, e oltrepassammo.

 

CAPO XCIV

 

Pordenone, Conegliano, Ospedaletto, Vicenza, Verona, Mantova mi ricordavano tante cose! Del primo luogo era nativo un valente giovane, stàtomi amico, e perito nelle stragi di Russia; Conegliano era il paese ove i secondini de' Piombi m'aveano detto essere stata condotta la Zanze; in Ospedaletto era stata maritata, ma or non viveavi più, una creatura angelica ed infelice, ch'io aveva già tempo venerato, e ch'io venerava ancora. In tutti que' luoghi insomma mi sorgeano rimembranze più o meno care; ed in Mantova più che in niun'altra città. Mi parea ieri che io v'era venuto con Lodovico nel 1815! Mi parea ieri che io v'era venuto con Porro nel 1820! - Le stesse strade, le stesse piazze, gli stessi palazzi, e tante differenze sociali! Tanti miei conoscenti involati da morte! tanti esuli! una generazione d'adulti i quali io aveva veduti nell'infanzia! E non poter correre a questa o quella casa! non poter parlare del tale o del tal altro con alcuno!

E per colmo d'affanno, Mantova era il punto di separazione per Maroncelli e per me. Vi pernottammo tristissimi entrambi. Io era agitato come un uomo alla vigilia d'udire la sua condanna.

La mattina mi lavai la faccia, e guardai nello specchio se si conoscesse ancora ch'io avessi pianto. Presi, quanto meglio potei, l'aria tranquilla e sorridente; dissi a Dio una picciola preghiera, ma per verità molto distratto, ed udendo che già Maroncelli movea le sue grucce e parlava col cameriere, andai ad abbracciarlo. Tutti e due sembravamo pieni di coraggio per questa separazione; ci parlavano un po' commossi, ma con voce forte. L'uffiziale di gendarmeria che dee condurlo a' confini di Romagna, è giunto; bisogna partire; non sappiamo quasi che dirci; un amplesso, un bacio, un amplesso ancora. - Montò in carrozza, disparve; io restai come annichilato.

Tornai nella mia stanza, mi gettai in ginocchio, e pregai per quel misero mutilato, diviso dal suo amico, e proruppi in lagrime ed in singhiozzi.

Conobbi molti uomini egregi, ma nessuno più affettuosamente socievole di Maroncelli, nessuno più educato a tutti i riguardi della gentilezza, più esente da accessi di selvaticume, più costantemente memore che la virtù si compone di continui esercizi di tolleranza, di generosità e di senno. Oh mio socio di tanti anni di dolore, il Cielo ti benedica ovunque tu respiri, e ti dia amici che m'agguaglino in amore e mi superino in bontà!

 

CAPO XCV

 

Partimmo la stessa mattina da Mantova per Brescia. Qui fu lasciato libero l'altro concaptivo, Andrea Tonelli. Quest'infelice seppe ivi d'aver perduta la madre, e le desolate sue lagrime mi straziarono il cuore.

Benché angosciatissimo qual io m'era per tante cagioni, il seguente caso mi fece alquanto ridere.

Sopra una tavola della locanda v'era un annuncio teatrale. Prendo, e leggo: “Francesca da Rimini, opera per musica, ecc.”.

“Di chi è quest'opera?” dico al cameriere.

“Chi l'abbia messa in versi e chi in musica, nol so,” risponde. “Ma insomma è sempre quella Francesca da Rimini, che tutti conoscono.”

“Tutti? V'ingannate. Io che vengo di Germania, che cosa ho da sapere delle vostre Francesche?”

Il cameriere (era un giovinotto di faccia sdegnosetta, veramente bresciana) mi guardò con disprezzante pietà.

“Che cosa ha da sapere? Signore, non si tratta di Francesche. Si tratta d'una Francesca da Rimini unica. Voglio dire la tragedia del signor Silvio Pellico. Qui l'hanno messa in opera, guastandola un pochino, ma tutt'uno è sempre quella.”

“Ah! Silvio Pellico? Mi pare d'aver inteso a nominarlo. Non è quel cattivo mobile che fu condannato a morte e poi a carcere duro, otto o nove anni sono?”

Non avessi mai detto questo scherzo! Si guardò intorno, poi guardò me, digrignò trentadue bellissimi denti, e se non avesse udito rumore, credo m'accoppava.

Se n'andò borbottando: “Cattivo mobile?”. Ma prima ch'io partissi, scoperse chi mi fossi. Ei non sapeva più né interrogare, né rispondere, né servire, né camminare. Non sapea più altro che pormi gli occhi addosso, fregarsi le mani, e dire a tutti senza proposito: “Sior sì, sior sì!” che parea che sternutasse.

Due giorni dopo, addì 9 settembre, giunsi col commissario a Milano. All'avvicinarmi a questa città, al rivedere la cupola del Duomo, al ripassare in quel viale di Loreto già mia passeggiata sì frequente e si cara, al rientrare per Porta Orientale, e ritrovarmi al Corso, e rivedere quelle case, quei templi, quelle vie, provai i più dolci ed i più tormentosi sentimenti: uno smanioso desiderio di fermarmi alcun tempo in Milano e riabbracciarvi quegli amici ch'io v'avrei rinvenuti ancora: un infinito rincrescimento pensando a quelli ch'io aveva lasciato sullo Spielberg, a quelli che ramingavano in terre straniere, a quelli ch'erano morti: una viva gratitudine rammentando l'amore che m'avevano dimostrato in generale i Milanesi: qualche fremito di sdegno contro alcuni che mi avevano calunniato, mentre erano sempre stati l'oggetto della mia benevolenza e della mia stima.

Andammo ad alloggiare alla Bella Venezia.

Qui io era stato tante volte a lieti amicali conviti: qui avea visitato tanti degni forestieri: qui una rispettabile attempata signora mi sollecitava, ed indarno, a seguirla in Toscana, prevedendo, s'io restava a Milano, le sventure che m'accaddero. Oh commoventi memorie! Oh passato sì cosparso di piaceri e di dolori, e sì rapidamente fuggito!

I camerieri dell'albergo scopersero subito chi foss'io. La voce si diffuse, e verso sera vidi molti fermarsi sulla piazza e guardare alle finestre. Uno (ignoro chi foss'egli) parve riconoscermi, e mi salutò alzando ambe la braccia.

Ah, dov'erano i figli di Porro, i miei figli? Perché non li vid'io?

 

CAPO XCVI

 

Il commissario mi condusse alla polizia, per presentarmi al direttore. Qual sensazione nel rivedere quella casa, mio primo carcere! Quanti affanni mi ricorsero alla mente! Ah! mi sovvenne con tenerezza di te, o Melchiorre Gioia, e dei passi precipitati ch'io ti vedea muovere su e giù fra quelle strette pareti, e delle ore che stavi immobile al tavolino scrivendo i tuoi nobili pensieri, e dei cenni che mi facevi col fazzoletto, e della mestizia con cui mi guardavi, quando il farmi cenni ti fu vietato! Ed immaginai la tua tomba, forse ignorata dal maggior numero di coloro che ti amarono, siccom'era ignorata da me! - ed implorai pace al tuo spirito!

Mi sovvenne anche del mutolino, della patetica voce di Maddalena, de' miei palpiti di compassione per essa, de' ladri miei vicini, del preteso Luigi XVII, del povero condannato che si lasciò cogliere il viglietto e sembrommi avere urlato sotto il bastone.

Tutte queste ed altre memorie m'opprimeano come un sogno angoscioso, ma più m'opprimea quella delle due visite fattemi ivi dal mio povero padre, dieci anni addietro. Come il buon vecchio s'illudeva, sperando ch'io presto potessi raggiungerlo a Torino! Avrebb'egli sostenuto l'idea di dieci anni di prigionia ad un figlio, e di tal prigionia? Ma quando le sue illusioni svanirono, avrà egli, avrà la madre avuto forza di reggere a sì lacerante cordoglio? Erami dato ancora di rivederli entrambi? o forse uno solo dei due? e quale?

Oh dubbio tormentosissimo e sempre rinascente! Io era, per così dire, alle porte di casa, e non sapeva ancora se i genitori fossero in vita; se fosse in vita pur uno della mia famiglia.

Il direttore della polizia m'accolse gentilmente, e permise ch'io mi fermassi alla Bella Venezia col commissario imperiale, invece di farmi custodire altrove. Non mi si concesse per altro di mostrarmi ad alcuno, ed io quindi mi determinai a partire il mattino seguente. Ottenni soltanto di vedere il Console piemontese, per chiedergli contezza de' miei congiunti. Sarei andato da lui, ma essendo preso da febbre e dovendo pormi in letto, lo feci pregare di venire da me.

Ebbe la compiacenza di non farsi aspettare, ed oh quanto gliene fui grato!

Ei mi diede buone nuove di mio padre e di mio fratello primogenito. Circa la madre, l'altro fratello e le due sorelle, rimasi in crudele incertezza.

In parte confortato, ma non abbastanza, avrei voluto, per sollevare l'anima mia, prolungare molto la conversazione col signor Console. Ei non fu scarso della sua gentilezza, ma dovette pure lasciarmi.

Restato solo, avrei avuto bisogno di lagrime, e non ne avea. Perché talvolta mi fa il dolore prorompere in pianto, ed altre volte, anzi il più spesso, quando parmi che il piangere mi sarebbe si dolce ristoro, lo invoco inutilmente? Questa impossibilità di sfogare la mia afflizione accresceami la febbre: il capo doleami forte.

Chiesi da bere a Stundberger. Questo buon uomo era un sergente della polizia di Vienna, faciente funzione di cameriere del commissario. Non era vecchio, ma diedesi il caso che mi porse da bere con mano tremante. Quel tremito mi ricordò Schiller, il mio amato Schiller, quando, il primo giorno del mio arrivo a Spielberg, gli dimandai con imperioso orgoglio la brocca dell'acqua, e me la porse.

Cosa strana! Tal rimembranza, aggiunta alle altre, ruppe la selce del mio cuore, e le lagrime scaturirono.

 

CAPO XCVII

 

La mattina del 10 settembre abbracciai il mio eccellente commissario, e partii. Ci conoscevamo solamente da un mese, e mi pareva un amico di molti anni. L'anima sua, piena di sentimento del bello e dell'onesto, non era investigatrice, non era artifiziosa; non perché non potesse avere l'ingegno di esserlo, ma per quell'amore di nobile semplicità ch'è negli uomini retti.

Taluno, durante il viaggio, in un luogo dove c'eravamo fermati, mi disse ascosamente: “Guardatevi di quell'angelo custode; se non fosse di quei neri non ve l'avrebbero dato”.

“Eppur v'ingannate” gli dissi “ho la più intima persuasione che v'ingannate.”

“I più astuti” riprese quegli “sono coloro che appaiono più semplici.”

“Se così fosse, non bisognerebbe mai credere alla virtù d'alcuno.”

“Vi son certi posti sociali ove può esservi molta elevata educazione per le maniere, ma non virtù! non virtù! non virtù!”

Non potei rispondergli altro, se non che:

“Esagerazione, signor mio! esagerazione!”

“Io sono conseguente” insisté colui.

Ma fummo interrotti. E mi sovvenne il cave a consequentiariis di Leibnizio.

Pur troppo la più parte degli uomini ragiona con questa falsa e terribile logica: "Io seguo lo stendardo A, che son certo essere quello della giustizia; colui segue lo stendardo B, che son certo essere quello dell'ingiustizia: dunque egli è un malvagio".

Ah no, o logici furibondi! di qualunque stendardo voi siate, non ragionate così disumanamente! Pensate che partendo da un lato svantaggioso qualunque (e dov'è una società od un individuo che non abbiane di tali?) e procedendo con rabbioso rigore di conseguenza in conseguenza, è facile a chicchessia il giungere a questa conclusione: "Fuori di noi quattro, tutti i mortali meritano d'essere arsi vivi". E se si fa più sagace scrutinio, ciascun de' quattro dirà: "Tutti i mortali meritano d'essere arsi vivi, fuori di me".

Questo volgare rigorismo è sommamente antifilosofico. Una diffidenza moderata può esser savia: una diffidenza oltrespinta, non mai.

Dopo il cenno che m'era stato fatto su quell'angelo custode, io posi più mente di prima a studiarlo, ed ogni giorno più mi convinsi della innocua e generosa sua natura.

Quando v'è un ordine di società stabilito, molto o poco buono ch'ei sia, tutti i posti sociali che non vengono per universale coscienza riconosciuti infami, tutti i posti sociali che promettono di cooperare nobilmente al ben pubblico e le cui promesse sono credute da gran numero di gente, tutti i posti sociali in cui è assurdo negare che vi sieno stati uomini onesti, possono sempre da uomini onesti essere occupati.

Lessi d'un quacchero che aveva orrore dei soldati. Vide una volta un soldato gettarsi nel Tamigi e salvare un infelice che s'annegava; ei disse: “Sarò sempre quacchero, ma anche i soldati son buone creature”.

 

CAPO XCVIII

 

Stundberger m'accompagnò sino alla vettura, ove montai col brigadiere di gendarmeria al quale io era stato affidato. Pioveva, e spirava aria fredda.

“S'avvolga bene nel mantello” diceami Stundberger “si copra meglio il capo, procuri di non arrivare a casa ammalato; ci vuol così poco per lei a raffreddarsi! Quanto m'incresce di non poterle prestare i miei servigi fino a Torino!”

E tutto ciò diceami egli sì cordialmente e con voce commossa!

“D'or innanzi, ella non avrà forse più mai alcun Tedesco vicino a sé” soggiuns'egli “non udrà forse più mai parlare questa lingua che gl'Italiani trovano sì dura. E poco le importerà probabilmente. Fra i Tedeschi ebbe tante sventure a patire, che non avrà troppa voglia di ricordarsi di noi. E nondimeno io, di cui ella dimenticherà presto il nome, io, signore, pregherò sempre per lei.”

“Ed io per te” gli dissi, toccandogli l'ultima volta la mano.

Il pover'uomo gridò ancora: “Guten Morgen! gute Reise! leben Sie wohl! (buon giorno! buon viaggio! stia bene!)”. Furono le ultime parole tedesche che udii pronunciare, e mi sonarono care come se fossero state della mia lingua.

Io amo appassionatamente la mia patria, ma non odio alcun'altra nazione. La civiltà, la ricchezza, la potenza, la gloria sono diverse nelle diverse nazioni; ma in tutte havvi anime obbedienti alla gran vocazione dell'uomo, di amare e compiangere e giovare.

Il brigadiere che m'accompagnava mi raccontò essere stato uno di quelli che arrestarono il mio infelicissimo Confalonieri. Mi disse come questi avea tentato di fuggire, come il colpo gli era fallito, come, strappato dalle braccia di sua sposa, Confalonieri ed essa fossero inteneriti e sostenessero con dignità quella sventura.

Io ardeva di febbre udendo questa misera storia, ed una mano di ferro parea stringermi il cuore.

Il narratore, uomo alla buona, e conversante per fiduciale socievolezza, non s'accorgeva che, sebbene io non avessi nulla contro di lui, pur non poteva a meno di raccapricciare guardando quelle mani che s'erano scagliate sul mio amico.

A Buffalora ei fece colazione: io era troppo angosciato, non presi niente.

Una volta, in anni già lontani, quando villeggiava in Arluno co' figli del conte Porro, veniva talora a passeggiare a Buffalora lungo il Ticino.

Esultai di vedere terminato il bel ponte, i cui materiali io aveva veduti sparsi sulla riva lombarda, con opinione allora comune che tal lavoro non si facesse più. Esultai di ritraversare quel fiume, e di ritoccare la terra piemontese. Ah, benché io ami tutte le nazioni, Dio sa quanto io prediliga l'Italia, e bench'io sia così invaghito dell'Italia, Dio sa quanto più dolce d'ogni altro nome d'italico paese mi sia il nome del Piemonte, del paese de' miei padri!

 

CAPO XCIX

 

Dirimpetto a Buffalora è San Martino. Qui il brigadiere lombardo parlò a' carabinieri piemontesi, indi mi salutò e ripassò il ponte.

“Andiamo a Novara” dissi al vetturino.

“Abbia la bontà d'aspettare un momento” disse un carabiniere.

Vidi ch'io non era ancor libero, e me n'afflissi, temendo che avesse ad esser ritardato il mio arrivo alla casa paterna.

Dopo più d'un quarto d'ora comparve un signore che mi chiese il permesso di venire a Novara con me. Un'altra occasione gli era mancata; or non v'era altro legno che il mio, egli era ben felice ch'io gli concedessi di profittarne, ecc. ecc.

Questo carabiniere travestito era d'amabile umore, e mi tenne buona compagnia sino a Novara. Giunti in questa città, fingendo di voler che smontassimo ad un albergo fece andare il legno nella caserma dei carabinieri, e qui mi fu detto esservi un letto per me nella camera di un brigadiere, e dover aspettare gli ordini superiori.

Io pensava di poter partire il dì seguente; mi posi a letto, e dopo aver chiacchierato alquanto coll'ospite brigadiere m'addormentai profondamente. Da lungo tempo non avea più dormito così bene.

Mi svegliai verso il mattino, m'alzai presto, e le prime ore mi sembrarono lunghe. Feci colezione, chiacchierai, passeggiai in istanza e sulla loggia, diedi un'occhiata ai libri dell'ospite; finalmente mi s'annuncia una visita.

Un gentile uffiziale mi viene a dar nuove di mio padre, e a dirmi esservi di esso in Novara una lettera la quale mi sarà in breve portata. Gli fui sommamente tenuto di quest'amabile cortesia.

Volsero alcune ore che pur mi sembrarono eterne, e la lettera alfin comparve.

Oh qual gioia nel rivedere quegli amati caratteri! qual gioia nell'intendere che mia madre, l'ottima mia madre viveva! e vivevano i miei due fratelli, e la sorella maggiore! Ahi! la minore, quella Marietta fattasi monaca della Visitazione, e della quale erami clandestinamente giunto notizia nel carcere, avea cessato di vivere nove mesi prima!

M'è dolce credere essere debitore della mia libertà a tutti coloro che m'amavano e che intercedevano incessantemente presso Dio per me, ed in particolar guisa ad una sorella che morì con indizii di somma pietà. Dio la compensi di tutte le angosce che il suo cuore sofferse a cagione delle mie sventure!

I giorni passavano, e la permissione di partire di Novara non veniva. Alla mattina del 16 settembre questa permissione finalmente mi fu data, e ogni tutela di carabinieri cessò. Oh da quanti anni non m'era più avvenuto d'andare ove mi piaceva senza accompagnamento di guardie!

Riscossi qualche danaro, ricevetti le gentilezze di persona conoscente di mio padre, e partii verso le tre pomeridiane. Avea per compagni di viaggio una signora, un negoziante, un incisore, e due giovani pittori, uno de' quali era sordo e muto. Questi pittori venivano da Roma; e mi fece piacere l'intendere che conoscessero la famiglia di Maroncelli. È sì soave cosa il poter parlare di coloro che amiamo con alcuno che non siavi indifferente!

Pernottammo a Vercelli. Il felice giorno 17 settembre spuntò. Si proseguì il viaggio. Oh come le vetture sono lente! non si giunse a Torino che a sera.

Chi mai, chi mai potrebbe descrivere la consolazione del mio cuore e de' cuori a me diletti, quando rividi e riabbracciai padre, madre, fratelli?... Non v'era la mia cara sorella Giuseppina, che il dover suo teneva a Chieri; ma udita la mia felicità, s'affrettò a venire per alcuni giorni in famiglia. Renduto a que' cinque carissimi oggetti della mia tenerezza, io era, io sono il più invidiabile de' mortali!

Ah! delle passate sciagure e della contentezza presente, come di tutto il bene ed il male che mi sarà serbato, sia benedetta la Provvidenza, della quale gli uomini e le cose, si voglia o non si voglia, sono mirabili stromenti ch'ella sa adoprare a fini degni di sé.

 

FINE